RISERVATO ABBONATI

Mafia nella Valle del Belice, ecco perché Gulotta e Mistretta sono stati assolti

In primo grado agli imputati erano state inflitte pesanti condanne: 15 anni di reclusione a Gulotta e 13 anni a Mistretta.

Pubblicato 3 anni fa

La Prima sezione della Corte di Appello di Palermo presieduta da Maria Elena Gamberini, – come è noto – ribaltando il verdetto di primo grado del Tribunale di Sciacca, ha assolto Tommaso Gulotta e Matteo Mistretta, entrambi originari di Menfi, dall’accusa di far parte della locale famiglia mafiosa sgominata nell’ambito dell’inchiesta “Opuntia”.

In primo grado agli imputati erano state inflitte pesanti condanne: 15 anni di reclusione a Gulotta e 13 anni a Mistretta.

Gulotta e Mistretta erano gli unici ad essere stati condannati nel processo scaturito dall’operazione “Opuntia”  – eseguita dai carabinieri – che avrebbe fatto luce sulle dinamiche delle cosche di Menfi e Santa Margherita Belice. Alla base dell’operazione le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Bucceri, già capo della famiglia mafiosa di Menfi. Nel collegio difensivo gli avvocati Giovanni Castronovo, Carmelo Carrara, Giovanni Rizzuti e Accursio Gagliano.

Nel giugno scorso, con il rito abbreviato, il Gup Marfia aveva assolto Domenico Friscia, 55 anni di Sciacca; il medico di Menfi, Pellegrino Scirica, 63 anni, Giuseppe Alesi, 48 anni, e il fratello Cosimo.

Adesso è possibile sapere perché i due menfitani sono stati assolti. Infatti, i giudici della Corte d’appello hanno depositato le motivazioni.

Per quanto riguarda la posizione di Matteo Mistretta difeso dagli avvocati Giovanni Castronovo e Carmelo Carrara, la Corte d’Appello afferma:

I gravami proposti nell’interesse del Mistretta sono fondati e vanno accolti.

Negli atti di impugnazione, invero, i difensori hanno, in maniera analitica, affrontato, in primo luogo, le dichiarazioni  rese dal collaboratore di giustizia Bucceri Vito, spiegando  le ragioni per le quali non si poteva condividere il giudizio di attendibilità cui era pervenuto il primo giudice.

Andando in dettaglio, va ricordato che il Bucceri, invero, nel corso della sua deposizione nel giudizio di primo  grado  all’udienza  del 27.6.2019, parlando del Mistretta, ha, in primo luogo, spiegato  che  lo stesso lo aveva assunto presso  la sua azienda  (“Matteo Mistretta  aveva un ‘azienda di service, che faceva dei lavori in campagna. Facevano un po’ di tutto, in sostanza. Compare la mamma, però fa tutto lui. È lui che gestisce i soldi, gestisce tutto lui.”), precisando di avere avuto dei contatti diretti anche con la di lui madre, dopo la sua scarcerazione, perché aveva difficoltà a trovare lavoro (“Loro mi hanno fatto un contratto lavorativo. Dove io, assieme a me c ‘erano altri operai, perché io sono andato a lavorare da lui…siccome a Matteo Mistretta gli hanno bruciato una vendemmiatrice, si era comprato un ‘altra vendemmiatrice e aveva bisogno di operai per lavorare, per andare avanti.”) .

Il Bucceri ha, poi, aggiunto di essere stato successivamente licenziato dal Mistretta e dalla madre (“Si. Mi  hanno  licenziato …lo  la  vertenza gliel’ho fatta dopo. Perché fino a questo punto non ci volevo arrivare. Io ci volevo arrivare solo per farmi dare i soldi”), per non meglio precisate difficoltà .

 Ciò posto, va evidenziato che, come correttamente rilevato dalla difesa, in nessun passo delle sue dichiarazioni il Bucceri ha mai riferito di essere stato assunto per eludere la misura di prevenzione che gli era stata applicata dopo la sua scarcerazione, come invece sostenuto nella sentenza di primo grado. Il collaboratore ha, infatti, espressamente specificato di essere stato assunto dal Mistretta su segnalazione di Li Basci Giuseppe, amico comune.

E proprio quest’ultima indicazione, invero, è stata confermata dalle dichiarazioni rese da Gulli Antonina.

Il che sta a significare, avuto riguardo ai vari luoghi ove l’impresa agricola poteva impegnare i suoi dipendenti, non un’asserita  sudditanza della Gulli al Bucceri – come sostenuto con evidente travisamento dei fatti nella sentenza di primo grado – ma, al contrario, che le condizioni di lavoro del collaborante dovevano necessariamente essere condizionate dalle prescrizioni della misura di prevenzione cui il predetto era sottoposto, o ad eventuali autorizzazioni che dovevano, comunque, sempre essere chieste al Tribunale e che il Bucceri, in verità, non ottenne mai.

La suddetta ricostruzione è stata, peraltro, confermata dal teste Li Basci Giuseppe, il quale ha riferito di aver “caldeggiato” con la Gulli ed il Mistretta l’assunzione del Bucceri, al fine di aiutarlo dopo la scarcerazione.

Ed è lo stesso Bucceri, peraltro, in un passo della sua deposizione del 27.6.2019, a riferire specificamente che il Mistretta, al momento in cui lo aveva assunto presso la ditta “L’Oro del Belice”, non faceva parte di Cosa Nostra: “Nel momento in cui sono stato assunto dall’azienda  “Oro del Belice” il Mistretta era estraneo a Cosa Nostra”) e, dunque, non poteva averlo assunto per ragioni strumentali al sodalizio.

Va, dunque, ritenuta del tutto infondata l’ipotesi accusatoria secondo la quale il Mistretta avrebbe assunto il Bucceri al fine di agevolarlo ad eludere la misura di prevenzione e come forma di aiuto al sodalizio mafioso.

Ritiene, invero, questa Corte che dalla vicenda in esame – culminata nel    licenziamento  del Bucceri che,  nell’ultimo periodo, non   si  era presentato neppure più al lavoro – si ricava, piuttosto, l’esistenza di un concreto motivo di risentimento diretto del collaborante nei confronti del Mistretta,  reo di averlo  licenziato pochi  mesi  dopo la sua assunzione, peraltro in un momento in cui il Bucceri aveva gravi difficoltà economiche. Dunque, non può non considerarsi come le effettive ragioni di astio e risentimento  pregresso  del  collaborante  verso  il  chiamato  in  correità, minino          certamente l’attendibilità       intrinseca  del  Bucceri, sia  pure inrelazione alle già generiche propalazioni a carico del Mistretta.

Continuando, invero, l’esame delle dichiarazioni del Bucceri sul conto del Mistretta, va segnato che il collaboratore ha dichiarato di aver messo in contatto, dopo la sua assunzione, l’odierno imputato con Campo Pietro, garantendo, per lui, una non meglio spiegata affidabilità.

Il Bucceri ha precisato che, in cambio di tale generica disponibilità del Mistretta, il Campo aveva assicurato a costui la possibilità di espandere il proprio raggio di azione in altri paesi, come Cattolica Eraclea.

Anche tale indicazione appare, ad avviso della Corte, non solo quanto mai vaga e generica, ma soprattutto smentita dalle risultanze di causa. Ma v’è di più. L’incontro del 30.6.2015, l’unico monitorato dagli inquirenti, mediante sistema di captazione, è risultato ben diverso da come descritto dal Bucceri, essendo rimasto il Mistretta e l ‘autista del Bucceri , il cugino, Riggio Vito, in disparte e non avendo, nessuno di costoro, partecipato al colloquio Campo/Bucceri.

Non si vede, dunque, come tale appuntamento potesse essere stato da viatico all’ingresso nel sodalizio del Mistretta, che ha dato una versione alternativa lecita e verosimile  del  suo  coinvolgimento all’accompagnamento  del Campo.

Il collaboratore ha poi, sempre nel corso della sua audizione dibattimentale in data 27.6.2019, precisato la circostanza che nel corso dell’incontro a cui il Mistretta aveva accompagnato il Campo, l’appellante non aveva partecipato alla discussione riservata, avvenuta tra il Bucceri ed il Campo, rimanendo in disparte, unitamente al Riggio. Tale indicazione, invero, appare, ad avviso del Collegio, altamente distonica rispetto ad una messa a disposizione del Mistretta, giacchè se l’imputato fosse stato ‘combinato’ in quell’occasione nella famiglia di Menfi, avrebbe avuto pieno titolo per partecipare alla discussione avvenuta tra due sodali della medesima articolazione.

Dunque, smentita da dati oggettivi la versione resa dal Bucceri, ritiene, invero, questa Corte che sul punto prenda sempre più piede la ricostruzione, verosimile, fornita dall’imputato nel corso del suo esame.

In sede di controesame il Bucceri ha specificato di non aver mai commesso fatti delittuosi con il Mistretta e che l’odierno imputato si era recato a Cattolica Eraclea su specifico incarico di Campo Pietro, per poter accrescere il suo raggio di azione professionale Tanto premesso in fatto, ritiene questa Corte che anche le affermazioni del Bucceri , rese peraltro soltanto nel presente giudizio, siano assolutamente generiche, in parte sostanzialmente irrilevanti , nonché m alcuni casi smentite dagli atti d’indagine e dalle produzioni difensive.

Con riguardo all’incendio della vendemmiatrice subito dal Mistretta, va rilevato, da un lato, che tale circostanza smentisce quella del collaborante, secondo cui l’imputato sarebbe andato esente dall’obbligo del pagamento del pizzo che, se così fosse stato, costui non sarebbe certo divenuto oggetto del suindicato atto intimidatorio e, dall’altro, che l’appellante ha regolarmente presentato denuncia di tale fatto e detta circostanza è elemento volto ad  escludere l’avvalimento da parte del Mistretta delle modalità classiche di risoluzione dei conflitti mediante la forza d’intimidazione mafiosa, a cui solo un associato può dare causa.

Analoga considerazione può essere compiuta con riferimento alla detenzione di una pistola a gas da parte del Mistretta: ciò in quanto la difesa, con la produzione documentale effettuata nel presente giudizio, ha fornito la prova sia dell’acquisto effettuato, che della regolare detenzione da parte dell’imputato. In tal modo è stata smentita la circostanza che quell’arma gli fosse stata regalata da affiliati mafiosi.

Va, peraltro, rilevato che le suddette dichiarazioni non hanno trovato alcun riscontro specifico derivante da eventuali attività di P.G. svolte sul punto.

Passando all’esame delle dichiarazioni rese dal Rizzuto, va rilevato che la sentenza di primo grado fa un erroneo richiamo, a pag. 175, sostenendo che il collaboratore, nel corso del suo esame dibattimentale in data  2.4.2019,  avrebbe  fatto  riferimento  al  Mistretta,  come  soggetto presente alla consegna di un provento di estorsione da parte del Bucceri a favore del Rizzuto.

In realtà, leggendo le dichiarazioni rese dal Rizzuto sul punto, in nessuna parte delle stesse si fa alcun riferimento alla posizione del Mistretta e, con specifico riferimento alla consegna della somma di denaro provento di un’estorsione al Bucceri, il collaboratore ha parlato della sola presenza del “Masino Addazzo”, ovverosia del Gulotta, e non del coimputato.

Completato l’esame delle dichiarazioni dei collaboratori, vanno adesso passati in rassegna i risultati dell’attività di P.G., che avrebbero costituito, secondo il primo giudice, riscontro alle stesse.

Tali risultati possono essere schematicamente riassunti nei seguenti punti: 1) il Mistretta ebbe effettivamente ad assumere il Bucceri dopo la sua scarcerazione presso la ditta L’Oro del Belice, ditta che faceva capo a lui, sebbene intestata formalmente alla madre; 2) in data 30.6.2015 il Mistretta ebbe ad accompagnare Campo Pietro ad un incontro con il Bucceri, nel quale, secondo il collaboratore, sarebbe  avvenuta la presentazione e la “messa a disposizione” dello stesso per la famiglia, così consentendogli di estendere la propria attività lavorativa anche nel paese di Cattolica Eraclea; 3) in data 3.7.2015 il Mistretta accompagnò il Bucceri presso la stazione dei Carabinieri per adempiere all’obbligo di firma; 4) nell’intercettazione del 27. l.2015 il Bucceri parla di un danneggiamento che deve effettuare con Libasci Giuseppe: il collaboratore fa riferimento ad una pistola a gas che detiene con tale “Matteo”.

Ritiene la Corte che nessuno dei suddetti elementi costituisca un riscontro individualizzante, anche sotto il profilo di una convergenza di significativi indicatori fattuali, della partecipazione del Mistretta al sodalizio mafioso di cui in rubrica.

Ritiene, invero, questa Corte che, a fronte della mancanza di altre chiamate sul punto, occorreva per rafforzare la dimostrazione di una condotta non occasionale ed a sua volta sintomatica dell ‘appartenenza organica a “Cosa Nostra” del Mistretta un riscontro individualizzante alla indicazione fornita dal Bucceri con riguardo alle condotte specifiche sopra rappresentate, che consentisse di riempire di contenuto le stesse.

Ed  invero,  se  in  tema  di  associazione  di   tipo   mafioso,   la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d’affari ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti non costituiscono elementi di per sé sintomatici dell’appartenenza all’associazione, e tuttavia possono essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante (così Cass. 19.1.2017, n. 6272), ciò non di meno, nel caso in esame, i contatti del Mistretta, oggetto di servizi di o.c.p. della polizia giudiziaria, con soggetti poi colpiti da misure cautelari per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., avvenuti alla luce del sole, presso esercizi pubblici ed il cui contenuto, non intercettato, è rimasto viepiù sconosciuto, costituiscono un dato assolutamente neutro, alla luce dell’occasionalità e della casualità degli incontri, nonché dei rapporti di conoscenza e di amicizia dall ‘appellante con costoro intrattenuti, spiegazione alternativa resa dall’imputato in sede d’esame che è assolutamente verosimile.

Non è, poi, risultato dimostrato che il Mistretta abbia posto in essere una condotta di favoreggiamento della latitanza di Campo Pietro, emergendo unicamente i suoi contatti con lo stesso in occasione dell’incontro avvenuto in data 30.6.2015, quando il Campo era libero, e del quale, peraltro, il Mistretta ha fornito adeguata e credibile spiegazione.

Per tutte le suindicate ragioni, non essendo emersa la prova certa che la vicinanza del Mistretta al Bucceri ed occasionalmente a Pietro Campo, si sia trasformata in un’organica militanza in “Cosa Nostra”, assorbito ogni altro motivo, l’appellante va mandato assolto dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste.

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