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La mafia agrigentina oggi: nomi, cognomi, alleanze, interessi e… Messina Denaro

L'atto d'accusa della Direzione distrettuale antimafia di Palermo

Pubblicato 3 anni fa

Niente sconti e nessuna attenuante.

L’avvocato (ex) Angela Porcello per i Pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Claudio Camilleri, Gianluca De Leo e Francesca Dessì, che hanno curato l’inchiesta “Xydi” smembrando il mandamento mafioso di Canicattì e le connessioni con numerosi altri mandamenti siciliani, è mafiosa sino al midollo e per questa ragione va condannata a 18 anni di reclusione.

Non è stata manco presa in considerazione l’attività di dissociazione dell’imputata che più volte ha manifestato la volontà di collaborare con la giustizia rendendo dichiarazioni auto e d etero accusatorie. Nessuna pietà per un professionista della legge (ieri assente) che è stata descritta in questo modo: “Ha strumentalizzato la toga dell’avvocato per coltivare gli affari della famiglia mafiosa in cui aveva un ruolo di primo piano il compagno già condannato per mafia. Nel suo studio ha tenuto summit e messo insieme i capi mafia di diverse province e realtà territoriali per discutere di strategie e dinamiche. Una vera e propria consigliori e cassiera del clan”. A lei i Pm attribuiscono una deviata attività forense tesa ad incontrare il boss Giuseppe Falsone al 41 bis e veicolare i suoi messaggi dal carcere verso l’esterno.

E poi c’è la vicenda Matteo Messina Denaro.

L’inchiesta “Xydi” ha rivelato numerosi contatti tra Angela Porcello e familiari dell’ergastolano latitante. Rapporti sconosciuti ai più ma consolidati e che, come rivelato sempre dalle indagini, preesistevano già con l’ex compagno mafioso, Giancarlo Buggea. Quest’ultimo, in una intercettazione, affermava di sapere “chi lo teneva”, ossia chi stava curando la sua latitanza. E questo particolare ha indotto i pubblici ministeri a tentare di scavare maggiormente senza trovare la collaborazione di Angela Porcello.

Una requisitoria durissima avanti il Gup del Tribunale di Palermo, Paolo Magro, che celebra il processo (rito abbreviato) e che a breve deciderà le sorti di Angela Porcello e altri 19 imputati. E anche per questi ultimi niente sconti ma richieste di condanne pesantissime: 20 anni per l’imprenditore ed ex compagno della donna, Giancarlo Bugea, di Campobello di Licata, già condannato per mafia così come per l’anziano boss Calogero Di Caro, 74 anni, capo del mandamento di Canicattì, figura storica della mafia siciliana e già scampato ad un agguato e il settantenne Luigi Boncori, altro capomafia recidivo di Ravanusa.

Le altre richieste di condanna riguardano Giuseppe Grassadonio, appuntato della Polizia penitenziaria (1 anno); Giuseppe Sicilia, boss di Favara (18 anni e 8 mesi); Calogero Paceco (10 anni e 8 mesi); Simone Castello (12 anni); Antonino Oliveri (10 anni e 8 mesi); Diego Cigna (10 anni e 8 mesi); Gregorio Lombardo (12 anni); Giuseppe D’Andrea, poliziotto in servizio fino all’arresto al Commissariato di Canicattì (4 anni); Luigi Carmina (10 anni e 8 mesi); Gianfranco Gaetani (10 anni e 8 mesi); Gaetano Lombardo (10 anni e 8 mesi); Giuseppe Pirrera (2 anni e 8 mesi); Giovanni Nobile (2 anni e 8 mesi); Annalisa Lentini, avvocato canicattinese (2 anni e 4 mesi); Vincenzo Di Caro (2 anni); Giuseppe Giuliana (16 anni e 8 mesi).

Ecco come il pubblico ministero Claudio Camilleri ricostruisce, sino ai nostri giorni, l’0attualità e pericolosità di Cosa nostra (e Stidda) in provincia di Agrigento.

L’intercettazione tra mafiosi anche con ruoli apicali non è certamente fatto eccezionale accaduto nell’ambito delle indagini preliminari condotte – ormai da più decenni – da questa Direzione distrettuale antimafia.

Anzi, oltre all’imprescindibile contributo conoscitivo su segreti, misteri e progetti di Cosa nostra che nel tempo è giunto attraverso i collaboratori di giustizia, le intercettazioni della viva voce degli uomini d’onore hanno sempre costituito un insostituibile strumento investigativo, prima ancora che probatorio, per apprendere e affinare sempre più il livello di conoscenza, direttamente dal suo interno, dell’associazione mafiosa.

Talvolta la captazione delle riunioni di uomini d’onore ha assunto anche storica importanza nel contrasto a Cosa nostra, vuoi per la caratura di chi ad essi aveva preso parte, vuoi per l’assoluto  rilievo degli argomenti  trattati, vuoi ancora per la chiarezza dei dialoghi che offrivano un nitido  spaccato delle dinamiche associative.

Raramente come nella presente indagine – eseguita con eccezionale capacità investigativa e operativa dal Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri – era però accaduto di registrare, sino a pochi giorni fa, una eccezionale ed ininterrotta sequenza di riunioni svoltesi per un arco temporale di circa due anni e tutte intrattenute tra esponenti di vertice  di Cosa nostra, anche appartenenti a province diverse.

Luogo prescelto ove si sono svolte dette riunioni è stato lo studio legale dell’avvocato Angela Porcello, nota penalista agrigentina impegnata nell’intero Distretto di Palermo in numerosi processi alle cosche mafiose nonché compagna dell’uomo d’onore già condannato per partecipazione all’associazione mafiosa Giancarlo Buggea.

Lo studio legale era stato tra l’altro selezionato ed individuato quale base logistica da un gruppo di capi famiglia soprattutto in ragione delle preclusioni investigative determinate dalle  garanzie  previste  dall’art  103 c.p.p.; garanzie che definitivamente cessavano allorquando già all’inizio dell’indagine si era compreso che la Porcello aveva deciso di dismettere la toga ed indossare i panni della sodale mafiosa, assurgendo pian piano addirittura al ruolo di vera e propria organizzatrice del mandamento mafioso di Canicattì.

Ripetutamente rassicurati dall’avvocato Porcello circa l’inaccessibilità ad eventuali iniziative investigative all’interno  del  proprio  studio  legale, capicosca del calibro del già citato Giancarlo Buggea (organizzatore del mandamento di Canicattì), Luigi Boncori (capo della famiglia mafiosa di Ravanusa), Giuseppe Sicilia (capo della famiglia  di  Favara), Giovanni Lauria (capo d ella famiglia mafiosa di Licata), Simone Castello (uomo d’onore  di  Villabate,  già  fedelissimo  di  Bernardo  Provenzano), Antonino Chiazza (esponente di  vertice  della rinata Stidda ), effettuavano decine di riunioni rendendosi protagonisti, in condizioni di straordinaria  genuinità, di lunghi  dialoghi  aventi  ad  oggetto  affari  e vicende di esclusiva  e riservatissima  connotazione  associativa.

Il compendio investigativo raccolto in occasione di dette riunioni è quello di centinaia di ore di intercettazioni (peraltro, nella quasi totalità, di rara chiarezza), ciascuna delle quali perfetta sintesi della dialettica mafiosa fatta di strategie, sussurri, sotterfugi, tragedie, mezze parole, alleanze, allusioni e doppiogiochismi.

Si tratta quindi di un materiale probatorio di eccezionale rilevanza, la cui analisi ha consentito di cogliere in diretta, e si ribadisce per circa due anni, origine ed evoluzione delle dinamiche interne a cosa nostra dalla viva voce di appartenenti all’associazione mafiosa dell’intera Sicilia, molti inediti ed altri già accertati come tali ma ancora pienamente operativi.

Tuttavia, indifferibili ragioni di urgenza impongono l’adozione del presente provvedimento,  che sintetizza gli esiti solo di alcune delle riunioni avvenute nello studio dell’avvocato Porcello ed in alcune autovetture in uso agli  indagati,  nonché  i conseguenti sviluppi investigativi ed i connessi accertamenti di polizia giudiziaria.

Con la doverosa premessa che l’ulteriore davvero imponente materiale investigativo raccolto  a carico di numerosissimi altri soggetti è ancora allo stato oggetto dei necessari approfondimenti, può certamente evidenziarsi che le indagini già svolte consentono sin d’ora di ricostruire molteplici e gravissimi avvenimenti che possono essere così sintetizzati.

È stato innanzitutto possibile ricostruire gli attuali interessi criminali ed assetti del mandamento di Canicattì che l’anziano ed autorevole capomafia Calogero Di Caro dirige (in ripetuta e costante violazione delle prescrizioni e restrizioni derivanti dalla misura cautelare degli arresti  domiciliari applicatagli, in ragione della sua età avanzata, in altro procedimento in cui è imputato) e che ha negli uomini d’onore Giancarlo Buggea, Giuseppe Giuliana e Luigi Boncori i suoi altri esponenti di vertice incaricati, tra l’altro, di comporre un vero e proprio triumvirato per la gestione degli affari economici più importanti nei territori di Canicattì, Ravanusa e Campobello di Licata.  Assoluto ed incontestato è emerso essere il controllo della criminalità comune operante nel territorio del mandamento di Canicattì frutto in primo luogo del vero e proprio terrore che i criminali da strada nutrono  nei confronti  dello  spietato  anziano  capo  mafia  Calogero Di Caro al cui cospetto addirittura, un pregiudicato accusato (dalla cosca) di avere commesso un furto non “autorizzato” da Cosa nostra, è stato immortalato mentre si inginocchiava implorando pietà per sé e la propria moglie.

Quell’articolazione mafiosa, da quanto emerso, risulta poi essersi assicurata il controllo e lo sfruttamento del lucrosissimo settore commerciale delle transazioni per la vendita di uva e di altri prodotti ortofrutticoli da parte degli imprenditori operanti in provincia di Agrigento.

Chiaro il duplice obiettivo così perseguito: quello di accaparrarsi ingenti somme di denaro destinate ad implementare le casse dell’associazione senza ricorrere ad attività (quali ad esempio il traffico di sostanze stupefacenti) ben più rischiose sotto il profilo giudiziario e quello parimenti vitale di presidiare (militarmente, come si vedrà) il principale ambito commerciale ed economico dei territori ricadenti nella provincia agrigentina, provincia dal punto di vista economico ancora saldamente legata al mercato agroalimentare quale fonte quasi unica ed esclusiva della ricchezza di quella terra.

Continui e strettissimi sono risultati i contatti man tenuti dagli esponenti del mandamento di Canicattì con quelli delle altre province mafiose siciliane, ciò che offre rinnovata  conferma del ruolo fondamentale rivestito delle cosche agrigentine nelle dinamiche dell’intera Cosa nostra isolana.

E proprio la complessiva analisi dei rapporti mafiosi interprovinciali vantati da alcuni degli odierni indagati (Giancarlo Buggea su tutti) consente di fotografare, con lampante evidenza, la perdurante unicità dell’intera associazione mafiosa.

Nonostante i ripetuti interventi repressivi effetto delle costanti attività investigative condotte da questo Ufficio e nonostante gli esiti di numerosissimi processi con i quali, quasi quotidianamente, vengono inflitte decine di anni di carcere agli appartenenti a Cosa nostra, la più efferata tra le associazioni criminali italiane risulta infatti avere mantenuto integra la sua sotterranea capacità di collegamento tra le diverse articolazioni territoriali.

Davvero impressionante l’efficienza con la quale gli esponenti di vertice delle diverse province mafiose di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania e Palermo, riescono a mantenere riservati contatti e ad esprimere la capacità di garantirsi, all’occorrenza, reciproco appoggio in ossequio alla basilare regola associativa della mutua assistenza.

Dato ancor più significativo, anch’esso emerso con chiarezza nel corso della presente indagine, è che l’unicità di Cosa nostra è a tutt’oggi a tal punto solidada permeare non soltanto le diverse cosche siciliane tra loro ma anche i rapporti tra queste e Cosa nostra statunitense.

Emissari americani della famiglia Gambino di New York si sono recati nei mesi scorsi a Favara per proporre a Cosa nostra siciliana l’attivazione di una lucrosa ed articolata sinergia criminale transnazionale.

L’efficienza dei collegamenti attivati dagli uomini d’onore indipendentemente dalla loro affiliazione a cosche di province, se non addirittura di continenti diversi, offre di per sé la cifra della perdurante ramificazione di Cosa nostra e della sua mai cessata pericolosità che, come è pure emerso sempre grazie ai dialoghi captati nel corso delle riunioni monitorate, in passato aveva visto anche la programmazione di cointeressenze criminali con esponenti apicali della camorra quali Paolo Di Lauro inteso Ciruzzo o’ milionario.

È inoltre emerso il timore che i membri di Cosa nostra nutrono non  soltanto per le continue  investigazioni  condotte dall’Autorità  giudiziaria,  ma  anche per le inchieste realizzate nei loro confronti da alcuni giornalisti, la cui attività impedisce agli uomini d’onore quella strategia dell'”inabissamento” che ormai da lungo  tempo  connota  il loro agire criminale.

A tal proposito le indagini hanno registrato l’insofferenza mostrata da Simone Castello – storico uomo d’onore fedelissimo di Bernardo Provenzano e che ha scontato lunghi anni di detenzione – per le attività d’inchiesta che sul suo stile di vita e sulle sue attuali occupazioni stava a suo dire svolgendo in questi mesi un  noto giornalista impegnato sul fronte antimafia.

In realtà, il malumore del Castello  soltanto apparentemente traeva origine dal mero fastidio per l’ingerenza nella propria vita privata o nella violazione della sua privacy. Le  preoccupazioni  dell’ uomo  d’onore  villabatese   risiedevano  infatti, nell’intenzione e dunque nella necessità di mantenere un  profilo sempre basso che gli potesse assicurare, dopo la sua scarcerazione, proprio quell'”inabbissamento” che, come è noto, aveva costituito per il suo mentore Bernardo Provenzano una regola di vita, a tal punto da imporla a tutti coloro i quali si riconoscevano nella sua guida mafiosa. E che una simile vicenda non riguardasse soltanto il singolo associato bersaglio delle inchieste giornalistiche, ma coinvolgeva le necessità dell’intera associazione di rimanere invisibile rispetto alle possibili iniziative investigative che talvolta conseguono a siffatte inchieste, si intuiva chiaramente dalla decisione del Castello di richiedere ospitalità in altri paesi siciliani presso altre famiglie mafiose (quale era quella capeggiata dal Buggea) che dal canto loro si mostravano senza tentennamenti pronte a fornire protezione ed assistenza logistica.

Figura prestigiosa di Cosa nostra siciliana risulta essere ancora il latitante Matteo Messina Denaro.

Univoche in tal senso le acquisizioni raccolte.

Le cosche agrigentine, infatti, oltre a giovarsi di un’attuale e segretissima rete di comunicazione con il castelvetranese, riconoscono unanimemente in Messina Denaro l’unico a cui spetta l’ultima parola in quel contesto territoriale sull’investitura ovvero la revoca di cariche di vertice all’interno dell’associazione.

Il riconoscimento del prestigio di Messina Denaro all’interno di Cosa nostra agrigentina si ricava plasticamente dalla ricostruzione della vicenda che, come si vedrà, ha riguardato il progetto che, con il subdolo appoggio dell’opportunista e calcolatore uomo d’onore Buggea, il mafioso Antonino Chiazza stava conducendo per l’esautorazione di Calogero Di Caro dal vertice del mandamento di Canicattì.

È emersa invero in termini netti la consapevolezza del Buggea e del Chiazza che un simile tanto ambizioso quanto pericoloso intendimento dovesse necessariamente ottenere il beneplacito del latitante prima di potere essere concretamente realizzato.

Beneplacito che, in ragione della loro dichiarata possibilità di comunicare con il latitante, dimostra ancora una volta che Messina Denaro è a tutt’oggi in grado di assumere decisioni delicatissime per gli equilibri di potere in Cosa nostra, nonostante la sua eccezionale capacità di eclissamento ed invisibilità che lo rendono ancora imprendibile alle migliori intelligenze investigative del Paese impegnate nella sua ricerca.

L’attività di indagine svelava poi la rinnovata presenza, nell’area territoriale del mandamento mafioso di Canicattì dell’agguerrita articolazione mafiosa stiddara, che si comprendeva essersi ricostituita  e ricompattata  intorno alle figure degli ergastolani semiliberi Antonio Gallea e Santo Gioacchino Rinallo.

Con riferimento proprio a costoro, uno dei numerosi dati allarmanti emersi nella presente indagine è costituito dal fatto che entrambi, dopo avere ottenuto la declaratoria di “impossibilità” della loro collaborazione, hanno sfruttato la disciplina premiale, prevista anche per i detenuti ergastolani, per ritornare ad agire sul territorio con i metodi già collaudati (ed accertati) in passato e così rivitalizzare una frangia criminale-mafiosa, quella della Stidda, condannata da tempo all’estinzione, e proiettarla con spregiudicatezza e violenza nel territorio agrigentino in una competizione allo stato pacifica con Cosa nostra specie sul lucrosissimo, e dunque strategico, settore delle mediazioni nel mercato ortofrutticolo, come detto uno dei pochi settori produttivi nella provincia di Agrigento.

La sopravanzata della Stidda, come si vedrà oggetto di molteplici frizioni con il gruppo mafioso “tradizionale”, ha fatto leva non solo sulla  forza intimidatrice sprigionata da un passato di accertata e inaudita violenza, ma anche su specifiche attuali manifestazioni di pari gravità, documentate dalla tentata estorsione e dai connessi progetti di morte in danno, tra gli altri, di un mediatore e di un imprenditore e sul possesso di armi da fuoco certamente destinate a commettere crimini, anche nei confronti di chi avesse osato frapporsi ai progetti espansionisti  di tale pericoloso e violento gruppo criminale mafioso.

Dalle indagini  è inoltre emerso che Cosa nostra e Stidda hanno sancito un accordo di pace tuttora vigente e che gli esponenti mafiosi delle due organizzazioni, pur continuando a guardarsi con diffidenza, hanno qualificati e diretti rapporti personali finalizzati alla risoluzione di problematiche ed alla individuazione/ spartizione delle attività  criminali  da  perpetrare  nel territorio.

Pace mafiosa che tuttavia, come la storia insegna, da un momento all’altro può divenire tragica e drammatica successione di fatti di sangue finalizzata al controllo, questa volta militare, dell’una organizzazione sull’altra.

Con riferimento ai due stiddari Antonio Gallea e Santo Gioacchino Rinallo va evidenziato che questi sono stati condannati entrambi più volte all’ergastolo per partecipazione ad associazione mafiosa, omicidio ed altri gravi reati.

Gallea, in particolare, veniva ritenuto responsabile quale mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Dopo aver espiato 25 anni di reclusione, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli lo ammetteva al beneficio della semilibertà per la pena residua da scontare. Il provvedimento del Tribunale si basava, tra l’altro, anche sulla precedente accertata “impossibilità” della sua collaborazione con la giustizia.

L’altro stiddaro Santo Rinallo, dopo 26 anni di reclusione, veniva ammesso il 6 ottobre 2017 al beneficio del regime della semilibertà dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari ed autorizzato a svolgere attività lavorativa  all’esterno della struttura carceraria.

Anche in questo caso, detto Tribunale fondava la propria decisione sulla già accertata “impossibilità” della sua collaborazione con la giustizia, riconosciuta questa volta dal Tribunale di Sorveglianza de  L’Aquila con ordinanza del 26 febbraio 2015.

Come  si  vedrà,  quanto  documentato  dalle  indagini  fornisce  poi  prova lampante,  ancora una  volta, dell’ulteriore profilo della pericolosità  di Cosa nostra,  capace  di  incunearsi  nei  gangli  vitali  dell’Amministrazione            della giustizia, sfruttando la spregiudicatezza di infedeli servitori, infettando così l’apparato investigativo-repressivo        sino ad            orientarlo financo per regolamenti di conti tra fazioni mafiose tra loro in contrasto.

Naturalmente, ad un  nocumento di tale entità corrisponde un intensissimo accrescimento del potere e della forza dell’associazione mafiosa che guadagna, dal contributo illecito di infedeli appartenenti alle forze dell’ordine, un vantaggio informativo spaventoso nei confronti della macchina repressiva lato sensu intesa, consentendo a sé stessa e ad altri appartenenti a Cosa nostra di sfuggire o ritardare l’appuntamento con l’accertamento della responsabilità penale.

Se non fosse stata in corso la presente indagine, in grado di intercettare incidentalmente le viziate ed infette proposte investigative azionate da un ispettore di Polizia su mandato dell’avvocato Porcello, quest’Ufficio sarebbe divenuto inconsapevolmente lo strumento di vendette tutte interne all’associazione mafiosa, con disastrose conseguenze, quali la mortificazione della funzione  giudiziaria, l’inquinamento involontario della indipendenza della magistratura, la deviazione sovversiva di un potere dello Stato.

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