Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra insieme per la “Supercosa”: ai vertici il canicattinese Gioacchino Amico
Indagati nella maxi-inchiesta catanese i canicattinesi Giuseppe Sorce, 48 anni (finito in carcere), Giovanni Gatto, 43 anni; Maurizio Li Calzi, 51 anni; Maria Marino, 44 anni; Raimondo Orlando, 50 anni non raggiunti da misura cautelare
La Dda della Procura di Milano ha chiuso una maxi inchiesta condotta dal nucleo investigativo dei Carabinieri del capoluogo lombardo nei confronti di oltre 150 indagati, accusati a vario titolo, di associazione di stampo mafioso, detenzione illegale di armi, estorsioni, traffico di droga, reati fiscali, intestazioni fittizie e riciclaggio. Dalle indagini, coordinate dalla procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e dalla pm Alessandra Cerreti, sarebbe emersa l’esistenza di una “imponente e capillarmente strutturata associazione mafiosa” attiva in Lombardia, tra la provincia di Milano e quella di Varese, “costituita da appartenenti alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra” con una “struttura confederativa orizzontale” che contribuirebbe alla realizzazione di un “sistema mafioso lombardo”. Per Cosa Nostra ci sarebbero esponenti collegati alle famiglie Fidanzati e Rinzivillo, al clan del mandamento di Castelvetrano di Messina Denaro e il gruppo Mazzei. E ancora, appartenenti alla locale di Lonate Pozzolo e alla cosca Iamonte per la ‘ndrangheta e al gruppo Senese per la camorra. E poi c’è il gruppo di Canicattì, un sodalizio criminale che ha operato tra la Sicilia e la Lombardia: Gioacchino Amico, 37 anni, residente ad Arconate e Giuseppe Sorce, 48 anni (finiti in carcere) entrambi di Canicattì come Giovanni Gatto, 43 anni; Maurizio Li Calzi, 51 anni; Maria Marino, 44 anni; Raimondo Orlando, 50 anni non raggiunti da misura cautelare. Il vero capo di questo sodalizio canicattinese e principale protagonista dell’intera inchiesta è Gioacchino Amico capace di allacciare rapporti con esponenti di tutte le mafie esistenti in Italia nonché con esponenti della politica nazionale di primo piano.
Tra gli indagati della maxi inchiesta della Dda di Milano sul presunto “sistema mafioso lombardo” figura anche il pregiudicato per mafia Paolo Aurelio Errante Parrino, 76 anni, ritenuto il punto di riferimento del mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia. Secondo la pm Alessandra Cerreti, avrebbe mantenuto i rapporti con Matteo Messina Denaro “rappresentando il punto di raccordo tra il sistema mafioso lombardo e l’ex latitante”, scomparso lo scorso 25 settembre, “a lui trasferendo comunicazione relative ad argomenti esiziali per l’associazione mafiosa”. Per lui i pm dell’antimafia avevano chiesto la custodia cautelare in carcere. Istanza respinta dal Gip.
Il sistema mafioso lombardo
Si tratta, nella definizione degli inquirenti, del cosiddetto “sistema mafioso lombardo” che “gestisce risorse finanziare, relazionali ed operative, attraverso un vincolo stabile tra loro caratterizzato dalla gestione ed ottimizzazione dei rilevanti profitti derivanti da sofisticate operazioni finanziarie realizzate mettendo in comune società, capitali e liquidità”.
La Procura individua ben cinque derivazioni che compongono il nuovo sistema mafioso lombardo. Da qui il nome dell’indagine: Hydra. L’inchiesta nasce a partire dal monitoraggio sulla riattivazione della locale di ‘ndrangheta a Lonate Pozzolo e si allarga seguendo un caso di lupara bianca. E cioé la scomparsa di Gaetano Cantarella, legato al clan Mazzei di Catania, ma secondo il pentito Emanuele De Castro collegato a Massimo Rosi, il quale su ordine del boss Vincenzo Rispoli, stava riattivando la locale di Lonate. Sceso a Catania il 3 febbraio 2020 e dopo aver incontrato Gioacchino Amico, Cantarella detto Tanu u Curtu scompare per sempre. Il fatto è rilevante perché apre nuovi scenari alla Procura che inizia a ricostruire le componenti del Consorzio. La prima è quella palermitana rappresentata da Giuseppe Fidanzati, detto Ninni, figlio del defunto Gaetano, già a capo del mandamento dell’Arenella, e da suo zio Stefano Fidanzati, ritenuto oggi il reggente del clan a Palermo. La componente trapanese porta il nome di Bernardo Pace e dei suoi due figli.
Gip boccia oltre 140 richieste arresti, nessun patto mafie
Nessun “patto” tra le tre mafie, Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra in Lombardia, così come viene contestato nella nuova inchiesta della Dda milanese, smontata, invece, dal gip di Milano Tommaso Perna che ha respinto oltre 140 richieste di arresti per altrettanti indagati. Il giudice, infatti, ha disposto il carcere solo per 11 persone (Gioacchino Amico, 37 anni di Canicattì ma residente ad Arconate Francesco Bellusci, Rosario Bonvissuto, Giacomo Cristello, Giuseppe Fiore, Pietro Mazzotta, Dario e Francesco Nicastro, Massimo Rosi, Sergio Sanseverino, Giuseppe Sorce, 48 anni, canicattinese), ma non per associazione mafiosa e solo per altri reati. La Dda, dunque, ha deciso, comunque, di chiudere le indagini, contestando sempre “l’alleanza” tra le tre mafie e di fare ricorso al Riesame per le richieste di custodia cautelare respinte.
Della “alleanza” tra le mafie in Lombardia aveva parlato, lo scorso agosto, anche il procuratore di Milano Marcello Viola durante un’audizione alla commissione antimafia. Recenti inchieste, aveva detto, “hanno evidenziato accordi stabili e duraturi tra ‘ndrangheta, criminalità siciliana e quella di stampo camorristico”, fenomeno questo “particolarmente allarmante in quanto” dà solidità a “una rete trasversale” che opera soprattutto nel “settore del riciclaggio”. Dinamiche mafiose che, aveva spiegato Viola, “definiscono un network che si salda su interessi concreti”. La Dda milanese ora punta tutto sul Riesame e proverà a portare a processo gli oltre 150 indagati, dopo aver chiuso le indagini con atti notificati oggi, contestualmente all’esecuzione degli 11 arresti. L’ordinanza del gip era stata depositata nelle scorse settimane e gli inquirenti, però, hanno deciso di ricorrere prima al Riesame e di chiudere le indagini contestualmente all’esecuzione dei pochi arresti accolti dal giudice.
Gip Milano, ‘sistema lombardo’ non è gruppo di rilievo criminale
Nel “sistema lombardo” composto, come ipotizza la Dda di Milano, da Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, “non si rinviene alcun sodalizio che si manifesta all’esterno, inteso come gruppo che possiede un prestigio criminale derivante dal vincolo associativo, che gli consente di infiltrarsi nel territorio, di sfruttare la condizione di omertà diffusa, di limitarsi, se del caso a lanciare avvertimenti anche simbolici o indiretti in ambiti politici, amministrativi, imprenditoriali: in tutti quei luoghi, insomma, dove è possibile trarre e moltiplicare profitti economici agendo in maniera organizzata”. Sono le considerazioni del Gip milanese Tommaso Perna nell’ordinanza con cui ha ‘bocciato’ la ricostruzione emersa dall’indagine coordinata dal pm Alessandra Cerreti con la supervisione dell’aggiunto Alessandra Dolci e del procuratore Marcello Viola su una presunta alleanza tra mafie per gestire affari e potere. “Quello che certamente emerge – annota il giudice – è, invece, la presenza sul territorio milanese di soggetti che, vantando, per lo meno per alcuni di essi, rapporti qualificati” con persone di “sicura appartenenza mafiosa, sia pur accertata in altre regioni, commettono attività lecite, ma anche delittuose, soprattutto di tipo economico, in territorio lombardo”.
Gip Milano, in indagine Dda mancano prove di sodalizio tra mafie
Il Gip scrive anche: “La ricostruzione della pubblica accusa” che ha prospettato l’esistenza di un ‘sistema mafioso lombardo” sorto sulla base di un’alleanza tra Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, è “carente, non essendo emersa la prova, nemmeno indiziaria, del fatto che gli odierni indagati si siano volontariamente associati in un unico sodalizio”. Per il giudice, dagli atti esaminati, è emerso che ciascuno degli indagati, “a tutto voler concedere, erano associati all’interno dei singoli sottogruppi, invero piuttosto disomogenei, talvolta composti da meno di 3 individui, dediti in qualche modo allo svolgimento di attività lecite e illecite”. “Del tutto assente, del resto, – prosegue l’ordinanza – è la prova del fatto che, all’interno del sodalizio confederativo, alcuni degli indagati svolgano il ruolo di promotori o capi, dovendosi piuttosto escludere che qualcuno di loro goda di un potere ed una autorità tali da poter impartire ordini a membri di gruppi diversi da quello proprio di appartenenza”. Altresì non “non vi è prova che (…) sia stata costruita un’organizzazione stabile, posta in essere allo scopo di realizzare un programma criminoso comune, protratto nel tempo, con una ripartizione di compiti tra gli associati, ossia il vincolo associativo”.
Dda Milano, da Lombardia ‘messaggi’ anche a Messina Denaro
Tra gli oltre 150 indagati nell’inchiesta della Dda di Milano sul “sistema mafioso lombardo” figura anche Paolo Aurelio Errante Parrino, che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato il “punto di raccordo” tra il “sistema mafioso” in Lombardia, ossia il presunto accordo tra le tre mafie, e Matteo Messina Denaro, morto lo scorso settembre. Parrino per gli inquirenti avrebbe trasferito al boss “comunicazioni relative ad argomenti esiziali” mentre era latitante. Parrino, secondo la Dda milanese, sarebbe il “referente nell’area lombarda della Provincia di Trapani, con specifico riferimento al Mandamento di Castelvetrano”, riconducibile “all’ex latitante Messina Denaro”, e uno dei componenti “del sistema mafioso lombardo” oltre che già condannato in passato per associazione mafiosa. Sarebbe stato Parrino, secondo le indagini dei carabinieri, “il punto di riferimento del Mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia“, mantenendo “i rapporti con i vertici di Cosa Nostra, in particolare, con Messina Denaro”, latitante “sino al 16 gennaio 2023, rappresentando il punto di raccordo tra il sistema mafioso lombardo e l’ex latitante, a lui trasferendo comunicazioni relative ad argomenti esiziali per l’associazione”. Avrebbe anche mantenuto e “curato i rapporti con la famiglia dell’ex latitante, vertice di Cosa Nostra”, occupandosi di “qualsiasi necessità del nucleo familiare da soddisfare in Nord Italia, compreso un adeguato supporto logistico in caso di bisogno”.
‘Sul cugino di Messina Denaro mancano le prove’
Nella nuova inchiesta della Dda di Milano secondo il Gip, mancano, tra l’altro, le prove per “affermare” che Paolo Aurelio Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro, “abbia proseguito, anche dopo la prima condanna del 1997, il suo rapporto di affiliazione al mandamento di Castelvetrano, né tantomeno all’associazione lombarda ipotizzata dalla Pubblica Accusa”, ossia quella confederazione di tre mafie. Lo scrive il Gip di Milano Tommaso Perna che, in un passaggio delle oltre 2mila pagine dell’ordinanza, spiega perché Parrino non può essere arrestato, così come altri 142 indagati, come chiedeva, invece, la Dda milanese. Il giudice chiarisce che è sì vero che Parrino è un “esponente storico del clan” mafioso di Messina Denaro, “seppur da tempo trasferitosi” a vivere ad Abbiategrasso, nel Milanese, ma manca nell’inchiesta “la prova dell’esternazione nel territorio milanese della metodologia mafiosa” da parte sua. Per il giudice, la Procura su Parrino, come in realtà su decine di altri indagati, ha portato solo “elementi” di tipo “suggestivo” per provare che il 76enne “abbia continuato a far parte del sodalizio” mafioso anche dopo la fine degli anni ’90. Manca, tra le altre cose, la prova “del contenuto degli incontri” tra Parrino e “Bellomo Girolamo“. Secondo l’accusa, Parrino sarebbe stato “intermediario per conto della famiglia trapanese dei Pace nella controversia con Amico Gioacchino”. E, nel novembre 2021, a Castelvetrano avrebbe incontrato anche le sorelle, la nipote e la madre dell’allora superlatitante Messina Denaro. E ancora, sempre secondo la Dda, avrebbe intrattenuto “perduranti e confidenziali rapporti” con il sindaco di Abbiategrasso (Milano) Cesare Nai (non è indagato), che chiamava, scrive la Procura, “Cesarino”, e con altri esponenti del Consiglio comunale. Ma non c’è alcuna prova, secondo il gip, che Parrino abbia messo in pratica la “metodologia mafiosa” nei fatti elencati, definiti dallo stesso giudice anche come “scarsamente rilevanti”, e che addirittura lo avrebbe fatto come presunto appartenente della confederazione delle tre mafie. Tra l’altro, quando un detenuto si sarebbe rivolto a Parrino affinché intervenisse sul sindaco perché, mentre era in carcere, gli era stata “sequestrata l’abitazione di edilizia popolare”, l’intervento del 76enne si era rivelato “non dirimente”, scrive il gip, trovando “l’opposizione” del primo cittadino. Un episodio che dimostra, chiarisce il giudice, che anzi “la presunta associazione” non è “in grado di esercitare alcun potere di controllo sul territorio”. Per il gip, in pratica, a Parrino sono state contestate dal pm “vicende bagatellari”.
Dda Milano, patto tra mafie in 21 summit e contatti politici
La “operatività” del “sistema mafioso lombardo” sarebbe stata “decisa congiuntamente dalle tre componenti mafiose”, ossia ‘ndrangheta, camorra e Cosa Nostra nel corso di 21 “summit” tra il marzo 2020 e il gennaio 2021. Emerge dalle imputazioni formulate dalla Dda di Milano e contenute nell’ordinanza di oltre 2mila pagine del gip di Milano. Secondo le accuse nelle indagini, il patto tra mafie avrebbe avuto anche lo scopo, tra i tanti, di mantenere “contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario, in modo da ottenerne favori, notizie riservate, erogazioni di finanziamenti, rete di relazioni” e di condizionare “il libero esercizio di voto”. Agli atti intercettazioni come “abbiamo un bel pacchetto di voti, perché posso portare o senatori in Europa”. Parole di Filippo Crea, presunto ‘ndranghetista, indagato. Tra le decine di attività illecite che, secondo la Dda, il “sistema” di mafie avrebbe portato avanti, c’è anche l’acquisizione di “appalti pubblici e privati, anche attraverso l’attivazione di canali istituzionali”.
Per la Dda milanese, i “vertici” delle tre mafie avrebbero operato “allo stesso livello” per mandare avanti il “sistema mafioso lombardo”, ossia la “confederazione”. Gli inquirenti, nella maxi imputazione per associazione mafiosa sull’alleanza (bocciata in toto dal gip), elencano nomi e famiglie delle tre mafie che avrebbero preso parte al patto: per Cosa Nostra, tra le altre, la “famiglia Fidanzati”, il “mandamento di Trapani” con “al vertice Messina Denaro”, e i Rinzivillo; per la ‘ndrangheta la “locale di Legnano-Lonate Pozzolo”, tra cui la ‘vecchia conoscenza’ della ‘ndrangheta lombarda Vincenzo Rispoli, la cosca Iamonte e Antonio Romeo; per la camorra il gruppo “Senese”, collegato a quello di Michele Senese, con base a Roma e il cui uomo forte sarebbe stato proprio Gioacchino Amico. Alcuni dei summit si sarebbero tenuti a Dairago (Milano) negli uffici della “Servizi integrati”, una delle aziende riconducibili alle mafie. Altri a Cinisello Balsamo, nel Milanese, anche nel marzo 2021, altri ancora ad Abbiategrasso (Milano). Incontri per parlare, si legge, a volte di “stupefacenti”, a volte di “superbonus 110%”. L’alleanza, secondo le indagini, avrebbe avuto come “scopo” la commissione di una sfilza di “gravi” reati, tra cui anche “la scomparsa per ‘lupara bianca’ di Gaetano Cantarella, il 3 febbraio 2020”. E poi ancora “rapine, truffe, riciclaggio, intestazioni fittizie, false fatturazioni”, cessioni di “falsi crediti d’imposta, estorsioni”, recupero crediti, traffico di droga, acquisto e detenzione di armi. E ancora la “cassa comune” per i detenuti e i contatti con la politica e i colletti bianchi. Poi le “manovre finanziarie” con “società intestate a prestanome” (54 quelle elencate), alcune pure con sede a Londra e nel Delaware. Società nelle quali, secondo le indagini, erano presenti nelle compagini i vari esponenti delle tre mafie. E società con cui, poi, si sarebbero infiltrati nei settori della logistica, edile, sanitario anche per “forniture legate all’emergenza Covid” o per servizi di ambulanza “per trasporto dializzati”, nell’e-commerce, nella ristorazione, nel noleggio auto, nella gestione dei parcheggi aeroportuali. E ancora “importazione di gasolio” e “materiali ferrosi”. Oltre che, sempre secondo la Dda, le mani allungate sugli appalti.