Mafia

Da Sciacca a Roma al servizio di Nicoletti e la banda della Magliana

Blitz antimafia a Roma, indagato Francesco Mario Dimino: “Sono siciliano e sono originale, io ho combattuto... ho fatto le guerre per loro ”

Pubblicato 5 mesi fa

Una vera e propria centrale di riciclaggio a Roma al servizio dei clan. E’ quanto accertato dall’indagine della Dia di Roma che ha portato oggi a 18 arresti e al sequestro di beni per oltre 130 milioni (57 sono complessivamente gli indagati).

Dall’attività d’indagine, avviata nel 2018 e coordinata dalla Dda di Roma, è emersa l’esistenza di due gruppi criminali che riciclavano per vari clan, dai campani ai calabresi, ingenti somme di denaro in diversi settori, in particolare in quello degli idrocarburi e cinematografico. Venivano costituite società “fittizie” per emettere false fatturazioni grazie al supporto fornito da imprenditori e da liberi professionisti compiacenti. Per gli inquirenti a capo di una delle associazioni c’erano Antonio Nicoletti, figlio dell’ex esponente della Banda della Magliana e Pasquale Lombardi, figura di riferimento nella zona di Aprilia, insieme a esponenti della criminalità organizzata campana. Avrebbero curato gli interessi dei clan di camorra Mazzarella-D’Amico e delle cosche della ‘ndrangheta. A capo del secondo gruppo, collegato al primo, c’erano secondo gli inquirenti Vincenzo Senese, figlio di Michele, Salvatore D’Amico, detto o’ pirata e Roberto Macori, ritenuto alter ego di Mokbel e cresciuto all’ombra di Massimo Carminati.

Tra i 57 indagati figura anche un agrigentino, Francesco Mario Dimino, 58 anni, nato a Sciacca, accusato nello specifico di una tentata estorsione per la quale la Direzione distrettuale antimafia di Roma aveva chiesto la cattura con detenzione carceraria. Il Gip del Tribunale di Roma non ha ritenuto sufficientemente gravi gli indizi di reato a suo carico rigettando la richiesta. Ecco cosa scrive il Giudice per le indagini preliminari Emanuela Attura a proposito di Dimino:

“La vicenda della tentata estorsione che vede indagati Massimo Nicoletti e Francesco Mario Dimino in danno del Digiacomo e del Romoli del Gruppo Libero, si inquadra nella volontà di consentire al Gaglione ed al Belardi il recupero di un credito di 190 mila euro vantato nei confronti delle p.o.,  E’ emerso che il Nicoletti, prospettando il ricorso alla violenza, con la collaborazione del Dimino, agisce tutela degli interessi del Gaglione e del Belardi, consapevole che quest’ultimi, ormai allontanati dal Gruppo Libero, erano stati fino a quel momento, i “supervisori” degli investimenti fatti. Massimo Nicoletti appena scarcerato dalla Casa Circondariale di Civitavecchia e sottoposto all’obbligo di dimora con presentazione alla p.g. in località Fregene (il 1.06.2018), il 15.6.18 si incontra con il fratello Antonio, Francesco Mario Dimino e Arturo De Santis.  Nel corso della conversazione captata viene analizzata la situazione degli investimenti effettuati nel Gruppo Libero.

Dimino si apparta con Antonio Nicoletti e fornisce un quadro degli investimenti dei Nicoletti. Inoltre il Dimino parlando con il De Santis fa emergere la necessità di chiarirsi riservatamente con Massimo Nicoletti prima di affrontare le questioni con “quelli del Consorzio”. Il primo riscontro è acquisito il 2.8.18: Dimino incontra i due amministratori Romoli e Digiacomo. Il focus della conversazione è il tentativo di ricomporre i rapporti con Gaglione e Belardi e trovare un accordo sui crediti vantati.

Le parole pronunciate da Dimino sono chiare con riguardo alle intenzioni dei Nicoletti, qualora le richieste non trovino soddisfazione “… perché mandate la gente a fare i reati…(,)… le estorsioni si fanno… uno per un amico, per le cose giuste … ma quando le cose non sono giuste… (,) … siccome io ti dissi: io sono un ragazzo bravo ma se ci metto mano io le cose le completo … siccome loro hanno fatto una determinata operazione…(,)… io automaticamente devo ritornare qua.. capito il problema? … ritornare qua nella regola … dopo voi sapete… (,)… io sono originale, sono siciliano e sono originale … (,) …io sono stato sempre con loro … io ho combattuto per loro … io ho fatto le guerre con tutti quelli della banda della Magliana, giusto? …“.

L’esito dell’incontro viene riportato a Massimo Nicoletti il 6.8.18.

Nel corso del colloquio emerge l’ammontare dei crediti vantati dal Belardi e dal Gaglione e le intenzioni del Nicoletti di recuperare le somme ricorrendo anche alla violenza “…(,)… ottantamila di Salvatore…trentamila li ha messi in contanti Gennaro…quindi sono centonovanta che vanno sul terreno adesso si rivende il terreno e ci riprendiamo i soldi il recupero io glielo faccio al cinquanta per cento a questi eh…”.

La conversazione si conclude con Dimino che chiede l’autorizzazione a preparare l’incontro chiarificatore, che, invece, non si terrà, perché Digiacomo e Romoli esprimono al Dimino la loro assoluta contrarietà. Il rifiuto, comunicato immediatamente al Nicoletti ne scatena l’ira.

La stessa sera, è captata una conversazione tra Dimino, Antilli e Nicoletti nel corso della quale emergono le intenzioni violente di Nicoletti, che minaccia che se non fossero andati loro (Digiacomo e Romoli), sarebbe andato lui a Roma. Ribadisce con Dimino la sua richiesta di restituzione immediata dei soldi di Gaglione e Belardi. A conclusione del confronto l’Antilli ripercorre i termini del contrasto sorto per l’acquisto del terreno, affare che avrebbe dovuto assicurare al Nicoletti una provvigione alla firma dell’atto. L’incontro non si realizzerà mai, lasciando allo stadio di tentativo il recupero delle somme, nonostante i propositi violenti di Nicoletti e le continue pressioni del Dimino.

Così ricostruito il fatto, lo stesso appare pienamente configurabile quale ipotesi di tentata estorsione aggravata. E’ emerso che gli indagati hanno posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere il Digiacomo ed il Romoli, amministratori di fatto del Gruppo Libero società consortile a versare la somma di 190 mila euro, investita da Gaglione e Belardi. Nello specifico, Massimo Nicoletti incaricava il Dimino di obbligare il Digiacomo ed il Romoli a pagare il debito verso Gaglione e Belardi, pretendendo per il suo intervento il 50% della somma recuperata, Il Dimino, quindi, minacciava le gli imprenditori pronunciando le frasi “siccome io ti dissi: io sono un ragazzo bravo ma se ci metto mano io le cose le completo .. siccome loro hanno fatto una determinata operazione… (,)…,io automaticamente devo ritornare qua… capito il problema? .. ritornare qua nella regola dopo voi sapete… (,)… io sono originale, sono siciliano e sono originale… ” e rinforzava la minaccia : “io sono stato sempre con loro … io ho combattuto per loro … io ho fatto le guerre con tutti quelli della banda della Magliana, giusto?”, così riferendosi esplicitamente all’appartenenza della famiglia Nicoletti alla criminalità organizzata romana.

Il reato, poi, non veniva portato a compimento per cause indipendenti dalla volontà degli indagati.

Sussiste l’aggravante di cui all’art. 416 bis 1 c.p. sotto il profilo dell’avvalimento del metodo mafioso e quindi del metodo in grado di ingenerare uno stato di assoggettamento e di soggezione, quando l’azione, posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune. (Cfr. Cassazione penale sez. V, 26/01/2021, n.14867)

In sostanza perché possa configurarsi l’aggravante del metodo mafioso, è sufficiente che l’azione evochi la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso.

Al riguardo, per la sussistenza dell’aggravante, è sufficiente che l’associazione, in quanto evocata dall’agente, pur rimanendo sullo sfondo, spinga la vittima a piegarsi, solo in apparenza “spontaneamente”, al volere dell’aggressore e ad abbandonare ogni velleità di resistenza o difesa per timore di ritorsioni o, comunque, di più gravi conseguenze. Infatti, l’avere ingenerato nella persona offesa la consapevolezza che l’agente appartenga a un’associazione mafiosa o che agisca su suo mandato, è alla base del peculiare stato di soggezione, omertà e vulnerabilità, che facilitano l’esecuzione del reato, rendendone più difficoltosa la repressione, e che lasciano la vittima inerme di fronte alla forza prevaricatrice e sopraffattrice dell’associazione medesima (cfr. Cassazione penale sez. II, 14/07/2020, n.27427)

Ebbene con riguardo alla imputazione di cui al presente capo d’imputazione, emerge come il Dimino ha utilizzato la specifica minaccia derivante dalla circostanza non solo di essere siciliano, ma dalla sua appartenenza alla banda della Magliana, organizzazione criminale romana, nota per la violenza del metodo utilizzato per il perseguimento dei propri scopi.

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