Giudiziaria

Il femminicidio di Lorena Quaranta, tra ergastolo e attenuanti: cosa dicono le sentenze 

Per la Cassazione bisogna valutare se e in che modo la pandemia abbia potuto incidere sullo stato di ansia dell’imputato. Per l’avvocato dei familiari, invece, la Corte di Assise di Appello era stata molto chiara.

Pubblicato 3 mesi fa

Diciamolo fin da subito. L’affermazione della responsabilità di Antonio De Pace, l’infermiere calabrese che il 31 marzo 2020 ha ucciso Lorena Quaranta, è scolpita nella pietra. E la sentenza della Cassazione, in tal senso, è divenuta irrevocabile. Nessun “colpo di spugna”, dunque, in ordine al reato di omicidio. È altrettanto innegabile, però, che la decisione della prima sezione della Suprema Corte, presieduta dal giudice Vito Di Nicola, di annullare la sentenza “limitatamente al punto concernente l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche” ha provocato un turbinio di reazioni. In primis della famiglia di Lorena che, dopo aver girovagato anni nelle aule giudiziarie chiedendo giustizia per la figlia, hanno rotto un lungo silenzio.

La Cassazione, dunque, ha disposto un nuovo processo davanti la Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria che dovrà valutare “soltanto” l’eventuale sussistenza delle attenuanti generiche e, in particolare, se “possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale.” Qualora le attenuanti venissero riconosciute automaticamente cadrebbe la condanna all’ergastolo già inflitta in primo e secondo grado, con una pena che potrebbe oscillare tra i 24 e i 28 anni di reclusione. Per i genitori è stato un pugno nello stomaco e sono più che convinti che il “disagio” dell’ex genero non abbia nulla a che vedere con il covid. Piuttosto, secondo quanto riferito dal padre di Lorena ad “Open”, l’omicidio della figlia sarebbe maturato in un contesto di forti tensioni dovute all’insofferenza del De Pace nel vedere “spiccare il volo” alla fidanzata. A tal proposito potrebbe essere indicativo un messaggio inviato dalla stessa Lorena: “Mi riempi tanto la testa con il fatto che vuoi essere alla mia altezza e poi ti comporti come un paesano ignorante che dà colpi sul vetro”. 

Entrando nello specifico, cerchiamo di capire cosa non ha convinto i giudici della Suprema Corte che hanno definito il ragionamento della Corte di Assise di Appello (sempre parlando di attenuanti) non convincente “perché affetto, sul piano sia razionale che, soprattutto, dell’esegesi delle emergenze istruttorie, da plurime falle”. Scrive la Cassazione: “Va osservato come, nella presente vicenda, si discuta dell’attitudine dello stato emotivo che ha fatto da sfondo alla condotta omicida a fungere da fattore di attenuazione della misura della responsabilità penale: eventualità, questa, che, sicuramente ipotizzabile in astratto, come in passato riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità è stata esclusa dalla Corte di assise di appello sulla scorta di un percorso argomentativo che si connota, a ben vedere, per aporie e contraddizioni tutt’altro che marginali. Il ragionamento non convince, perché affetto, sul piano sia razionale che, soprattutto, dell’esegesi delle emergenze istruttorie, da plurime falle. È, invero, la stessa Corte di assise di appello ad attestare nel sintetizzare il contenuto della sentenza di primo grado, come “tutti i testi escussi in dibattimento avessero concordemente attribuito alla relazione sentimentale che aveva avvinto l’imputato alla vittima i caratteri di un rapporto solido, profondo e sereno, condiviso con entusiasmo dai componenti dei rispettivi nuclei familiari. In questa cornice – esente, per quanto emerso dal processo, da connotazioni tali da assegnare al delitto una matrice legata al genere – adombrare, come fa la Corte di assise di appello, che l’ imputato abbia agito per un movente, rimasto sconosciuto, diverso dal preponderante stimolo derivante dallo stato di angoscia in cui egli era precipitato si risolve in un travisamento del dato processuale, che depone, piuttosto, nel senso della diretta connessione tra il disagio psicologico che ha afflitto De Pace e gli anomali comportamenti da lui tenuti a partire dalla tarda mattinata del 30 marzo 2020. Ancor più irrazionale è il successivo snodo del percorso motivazionale che sorregge il rigetto del motivo di appello, imperniato sul rilievo per cui De Pace, dopo avere inscenato il tentativo di fuga, vi avrebbe “prontamente abdicato”. Ed è proprio dal persistente ed irrisolto dissidio interiore – tra la necessità di dare sfogo al suo incomprimibile ed ormai esacerbato disagio psicologico e quella di onorare, come accoratamente raccomandatogli da tutti coloro con cui egli interloquì in quelle ore, i propri doveri di compagno e di cittadino – che discendono i suoi successivi ed altalenanti comportamenti, dal ritorno a casa al nuovo accenno di allontanamento registrato intorno alle ore 19:00, sino all’apparente calma serale, all’agitazione notturna (segnata, tra l’altro, dall’invio di messaggi, quali quelli inviati ai fratelli, basati su lugubri presagi, e dal contatto instaurato con il padre alle 4:21, dettato dalla preoccupazione per le condizioni di salute dei genitori) ed al tragico epilogo.” Poi il passaggio chiave:Deve stimarsi che i giudici di merito non abbiano compiutamente verificato se, data la specificità del contesto, possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica; con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale. La faglia razionale insita nella motivazione della sentenza impugnata è, in potenza, idonea ad incidere sul vaglio del motivo di appello, incentrato su un profilo – l’attitudine della peculiare condizione psicologica a giustificare il contenimento del trattamento sanzionatorio – che, naturalmente, dovrà essere delibato in sinergia con quelli, ulteriori, a tal fine già considerati dai giudici di merito, ivi compreso il contegno serbato dall’imputato nel corso delle indagini preliminari e, quindi, in dibattimento, che è stato valorizzato, in senso contrario al contenimento della sanzione, dal giudice di primo grado ma non anche da quello di appello.” 

Per la Cassazione, dunque, non è stata adeguatamente verificato e motivato se, e in quale misura, lo stato di angoscia dovuto dalla pandemia abbia potuto incidere sulla responsabilità del De Pace. Diametralmente opposto, invece, il pensiero degli avvocati Giuseppe Barba (che rappresenta i familiari di Lorena) e Concetta La Torre dell’associazione “Al tuo fianco”. Per i legali, infatti, i giudici della Corte di Appello di Assise di Messina sul punto erano stati molto chiari. Ecco, in tal senso, cosa avevano scritto i giudici di secondo grado: Appare infondato anche il motivo di appello concernente la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, atteso che queste ultime sono finalizzate al riconoscimento di situazioni, non contemplate specificamente in altri parametri richiamati all’art.113, che presentano connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva considerazione ai fini della quantificazione della pena e che, nel caso di specie, non si riscontrano elementi positivi che giustifichino un trattamento di particolare favore nei confronti dell’imputato. Ha affermato, in particolare, la difesa che la peculiare situazione psicologica dell’imputato, riconosciuta dal primo giudice, doveva essere correttamente valutata in relazione all’atteggiamento tenuto dal medesimo in occasione del fatto e, conseguentemente non poteva non tenersi conto del principio di diritto più volte affermato dalla Suprema Corte, alla cui stregua gli stati emotivi o passionali, che non escludono né diminuiscono l’imputabilità., possono essere considerati dal giudice ai fini della concessione delle attenuanti generiche, influendo sulla misura responsabilità penale. Tale argomentazione non convince. Come ben evidenziato dalla Corte di Assise, l’azione delittuosa posta in essere dal De Pace, causativa del più grave tra i danni che si possono provocare (la perdita di una vita umana, stroncata nel fiore degli anni, quando ormai era ormai prossima a raggiungere un importante traguardo formativo qual è la laurea in Medicina), si connota, anzitutto, per un esorbitante livello di disvalore. Può, in primo luogo, ritenersi accertato come il delitto sia maturato nel corso di una furibonda lite in cui, nelle prime ore del mattino del 31 marzo 2020, era culminato un contrasto che aveva frapposto l’imputato e la vittima sin dalla mattina del giorno precedente (come ammesso dallo stesso imputato e riferito anche dalla vicina di casa, svegliata dalle grida dei due giovani e dal rumore simile a quello prodotto dallo spostamento di mobili) e sia stato consumato con modalità particolarmente cruente e violente (la forza esercitata dall’imputato sulle vie aeree è stata cosi intensa da causare la fratture di un incisivo superiore). Inoltre, come ben evidenziato dal primo giudice, le modalità della condotta – segnatamente l’avere esercitato, in occasione di un litigio con la vittima, una cieca violenza nei confronti di colei cui l’imputato era legato da un saldo rapporto affettivo, l’avere trovato dentro di sé il coraggio di uccidere a mani nude la giovane, di osservarla mentre vinceva la disperata resistenza che ella aveva tentato di opporre (come evidenziato dalla d.ssa Sapienza, la morte per soffocamento è intervenuta dopo alcuni minuti), sono circostanze che disegnano i contorni di una condotta efferata, fonte di non comune sgomento e che, sul piano soggettivo, delineano una allarmante determinazione e pervicacia dell’imputato che, certamente non può essere messa in correlazione con uno stato d’ansia in cui versava il De Pace al momento della commissione del delitto, le cui cause, sono rimaste dubbie nella condivisibile progettazione del perito. In proposito, basti osservare come, nell’indagare le cause di detto stato emotivo, il prof. Ferracuti abbia evidenziato che, ove l’imputato avesse temuto di essere contagiato dalla vittima questa idea non era evidentemente ben radicata nella sua coscienza, dal momento che aveva accettato di tornare a casa ed era uscito a mantenere un rapporto adeguato con la stessa (addirittura baciandola sulle scale al suo rientro), comportamento difficilmente ipotizzabile ove avesse presentato una ideazione profondamente radicata e pervasiva tale da ingenerare un delirio di contaminazione, con la vittima come agente causale. D’altra parte, se il fattore stressante fosse stato la pandemia, l’imputato non avrebbe ridotto il senso di angoscia e di oppressione dopo il decesso della vittima. Se, infine, l’imputato avesse presentato idee di persecuzione da parte del padre e del fratello di Lorena, l’ostilità si sarebbe dovuta concentrare su tali persone. In ogni caso, detto stato d’ansia e di irrequietezza, comunque manifestato dall’imputato nelle ore immediatamente precedenti al delitto, non solo, come ampiamente argomentato, non ha compromesso la sua capacità di intendere e di volere, ma non ha certamente determinato, né giustificato, l’odio e l’efferatezza rivolti dal De Pace contro la povera Lorena Quaranta (che non può escludersi abbiano tratto origine da un movente rimasto inesplorato). Pertanto, non può ritenersi che lo stato emotivo manifestato dall’imputato nei momenti antecedenti all’omicidio abbia influito concretamente sulla misura della responsabilità penale e sia, pertanto, valutabile positivamente ai fini della concessione delle circostanze attenuante generiche. Possono inoltre richiamarsi e condividersi le ulteriori considerazioni operate dal primo giudice in merito al fatto che il De Pace non sia stato travolto da una sensazione di concitazione emotiva improvvisamente palesatasi al momento del delitto, ma, al contrario, per sua stessa ammissione, ha sentito crescere dentro di sé una condizione di disagio che non ha, però, tentato efficacemente di contrastare. Egli, cioè, nulla ha fatto per tentare di placare l’ansia dalla quale si sentiva oppresso, se non, da ultimo, dare corso ad un tentativo di allontanamento da Furci cui ha prontamente abdicato, nulla ha concretamente opposto per infrenare la crescita di una condizione di agitazione che, com’è agevole comprendere, rappresenta il sostrato ideale nel quale maturano quelle reazioni comportamentali che, seppur sorrette da coscienza e volontà, ben difficilmente appaiono replicabili in condizioni personali diverse e più serene.”

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