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Il pastore di tutte le pecore

Così Giancarlo Buggea, nominato dal boss Falsone, voleva la pax tra Stidda e Cosa nostra. Con la benedizione di Matteo Messina Denaro

Pubblicato 7 giorni fa

Tassello dopo tassello, con verità, mezze ammissioni e qualche omissione, le dichiarazioni dell’ex avvocato Angela Porcello, finita in carcere per associazione mafiosa e già condannata a 15 anni e 4 mesi di reclusione per essere ritenuta ai vertici dell’articolazione mafiosa di Canicattì, cominciano a trovare le collocazioni adeguate.

La donna è comparsa nuovamente in video-collegamento dal carcere di Piacenza davanti i giudici della Seconda sezione penale del Tribunale di Agrigento presieduta da Wilma Angela Mazzara, per completare l’esame, già iniziato nell’udienza passata, nel contesto del filone processuale che segue il rito ordinario e che vede nove persone sul banco degli imputati: Giuseppe Falsone, boss ergastolano di Campobello di Licata e capo provinciale di Cosa Nostra; Antonino Chiazza, 52 anni, di Canicattì; Pietro Fazio, 49 anni, di Canicattì; Santo Gioacchino Rinallo, 62 anni di Canicattì; Antonio Gallea, 65 anni di  Canicattì; Filippo Pitruzzella, 61 anni, ispettore della polizia in pensione; Stefano Saccomando, 45 anni di Palma di Montechiaro; Calogero Lo Giudice, 48 anni di Canicattì; Calogero Valenti,  58 anni, residente a Canicattì. 

La Porcello, rispondendo alle domande delle parti per oltre un’ora, ha ancor di più disegnato il ruolo di vero e proprio boss dell’ex compagno, Giancarlo Buggea, divenuto “il pastore di tutte le pecore” (in passato l’uomo – sempre secondo il racconto dell’ex penalista – si era paragonato a Gesù Cristo) ma, soprattutto, ha evidenziato il ruolo non più secondario della Stidda a Canicattì che non solo si spendeva per esautorare il vecchio e potente boss della città dell’Uva Italia, Lillo Di Caro ma riusciva persino ad ottenere il pizzo (sino a quel momento appannaggio solo ed esclusivamente di Cosa nostra). Un grandissimo risultato se si considera che la mafia tradizionale canicattinese aveva gestito gli affari in maniera totalitaristica riuscendo a respingere l’attacco della Stidda degli anni 90 a suon di omicidi.

Angela Porcello è apparsa determinata e volitiva. Ben curata, capelli biondi più lunghi e sulle spalle (rispetto al look mostrato il giorno dell’arresto) elegante camicetta color verde mare, ha sciorinato dettagli e particolari alcuni non contenuti nel provvedimento giudiziario che generò l’operazione “Xydi”. Sollecitata dalle domande dell’avvocato Lo Monaco che difende l’imputato Antonino Chiazza, Angela Porcello ha chiarito ulteriormente come proprio Chiazza stesse brigando per far decadere da boss dei boss, Lillo Di Caro, promuovendo la candidatura a nuovo capo di Giancarlo Buggea evocando l’ombra di Matteo Messina Denaro (allora, siamo negli anni compresi dal 2018 al 2021, non ancora catturato) l’unico che avrebbe potuto dare l’avallo ad un’operazione simile, senza provocare una pericolosa reazione del vecchio e potente esponente del clan Di Caro. 

Racconta Porcello che proprio lei stessa veicolò un messaggio del boss di Campobello di Licata, Giuseppe Falsone, detenuto nel supercarcere di Novara al 41 bis, e recepito dal Buggea secondo il quale da quel momento bisognava diventare neutrali come “la Svizzera”, accogliere e convivere la parte avversa degli stiddari in modo da dare, appunto, “un pastore per tutte le pecore”. Ed in questo senso si è mosso Buggea, incontrando stiddari ergastolani come Santo Rinallo, Antonio Gallea, lo stesso Chiazza, e persino gli esponenti del clan Migliore, da decenni trasferitosi in Germania. Racconta ancora Angela Porcello che sino al momento dell’attuare la politica della pax mafiosa, i soldi del pizzo sulle vendite dei prodotti agricoli e delle sensalìe andavano esclusivamente a Cosa nostra secondo questa ripartizione: il 3%  della somma complessiva andava al mediatore, il quale, a sua volta, consegnava l’1,5% alla mafia. Con le nuove regole praticate da Buggea l’1,5% destinato a Cosa nostra andava diviso in parti uguali con la Stidda. E ricorda bene il sacchetto che gli stiddari portavano per metter dentro i soldi del pizzo. Un sacchetto con una fascia arancione nel mezzo. In questo modo, rispettando i voleri di Falsone, Stidda e Cosa nostra avrebbero avuto una coesistenza pacifica e senza le preoccupazioni di una nuova guerra cruenta fatta di morti ammazzati. Restava da risolvere un solo problema: come convincere Lillo Di Caro a farsi da parte. E qui, almeno secondo i racconti intercettati tra Buggea e Chiazza, entra in scena Matteo Messina Denaro. Lo spiegano bene i Carabinieri del Ros che hanno condotto l’inchiesta “Xydi” coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo: “L’attività di indagine svelava poi la rinnovata presenza, nell’area territoriale del mandamento mafioso di Canicattì, dell’agguerrita articolazione mafiosa stiddara, che si comprendeva essersi ricostituita e ricompattata intorno alle figure degli ergastolani semiliberi Antonio Gallea e Santo Gioacchino Rinallo. Con riferimento proprio a costoro, uno dei numerosi dati allarmanti emersi nella presente indagine è costituito dal fatto che entrambi, dopo avere ottenuto la declaratoria di “impossibilità” della loro collaborazione, hanno sfruttato la disciplina premiale, prevista anche per i detenuti ergastolani, per ritornare ad agire sul territorio con i metodi già collaudati (ed accertati) in passato e così rivitalizzare una frangia criminale-mafiosa, quella della stidda, condannata da tempo all’estinzione, e proiettarla con spregiudicatezza e violenza nel territorio agrigentino in una competizione allo stato pacifica con Cosa nostra specie sul lucrosissimo, e dunque strategico, settore delle mediazioni nel mercato ortofrutticolo, come detto uno dei pochi settori produttivi nella provincia di Agrigento.

La sopravanzata della Stidda, oggetto di molteplici frizioni con il gruppo mafioso “tradizionale”, ha fatto leva non solo sulla forza intimidatrice sprigionata da un passato di accertata e inaudita violenza, ma anche su specifiche attuali manifestazioni di pari gravità, documentate dalla tentata estorsione e dai connessi progetti di morte in danno, tra gli altri, di un mediatore e di un imprenditore (fortunatamente colti per tempo dalla polizia giudiziaria) e sul possesso di armi da fuoco certamente destinate a commettere crimini, anche nei confronti di chi avesse osato frapporsi ai progetti espansionisti di tale pericoloso e violento gruppo criminale mafioso.

Dalle indagini è inoltre emerso che Cosa nostra e Stidda hanno sancito un accordo di pace tuttora vigente e che gli esponenti mafiosi delle due organizzazioni, pur continuando a guardarsi con diffidenza, hanno qualificati e diretti rapporti personali finalizzati alla risoluzione di problematiche ed alla individuazione/spartizione delle attività criminali da compiere nel territorio. Pace mafiosa che tuttavia, come la storia insegna, da un momento all’altro può divenire tragica e drammatica successione di fatti di sangue finalizzata al controllo, questa volta militare, dell’una organizzazione sull’altra.

Con riferimento ai due stiddari Antonio Gallea e Santo Gioacchino Rinallo va evidenziato che questi sono stati condannati entrambi più volte all’ergastolo per partecipazione ad associazione mafiosa, omicidio ed altri gravi reati. Gallea, in particolare, veniva ritenuto responsabile quale mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, avvenuto il 21 settembre 1990. Dopo aver espiato 25 anni di reclusione, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli, con provvedimento del 21 gennaio 2015, lo ammetteva al beneficio della semilibertà per la pena residua da scontare. Il provvedimento del Tribunale si basava, tra l’altro, anche sulla precedente accertata “impossibilità” della sua collaborazione con la giustizia.

L’altro stiddaro Santo Gioacchino Rinallo, dopo 26 anni di reclusione, veniva ammesso il 6 ottobre 2017 al beneficio del regime della semilibertà dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari ed autorizzato a svolgere attività lavorativa all’esterno della struttura carceraria. Anche in questo caso, detto Tribunale fondava la propria decisione sulla già accertata “impossibilità” della sua collaborazione con la giustizia, riconosciuta questa volta dal Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila con ordinanza del 26 febbraio 2015. A troncante dimostrazione – poi – del ruolo di primissimo piano assunto in Cosanostra, dalle intercettazioni si apprendeva anche che il Buggea era in condizione di intrattenere rapporti direttamente con Matteo Messina Denaro, essendo a conoscenza della segretissima rete di comunicazione e protezione utilizzata dal capo di Cosa nostra latitante.

Infine, l’indiscussa e riconosciuta autorevolezza mafiosa raggiunta dal Buggea gli consentiva di essere indicato dal Chiazza quale candidato per la successione del capo mandamento di Canicattì Calogero Di Caro (così Chiazza il 13 gennaio 2020: “…tu sei quello perfetto! sei una persona matura per l’età che hai…). Infatti, lo stesso Chiazza stava conducendo una campagna di delegittimazione del Di Caro avente il manifesto scopo di scalzarlo dalla guida del mandamento (“siamo in uno stato dittatoriale, perché Canicattì ha bisogno di una svolta! Una svolta!” ed ancora “ma questo è un generale senza militari!… ma dove minchia vuole andare, Giancà?”).

A tutto questo, aggiungiamo noi, occorre inserire la circostanza, venuta fuori dall’inchiesta, secondo la quale Angela Porcello incontrava spesso e volentieri Lorenza Guttadauro, avvocato e nipote di Messina Denaro, moglie di Luca Bellomo finito in carcere proprio perché vicinissimo all’ex boss latitante. Le indagini successive all’arresto di Messina Denaro, aggiungiamo ancora noi, potrebbero rivelare la permanenza nel nostro territorio proprio di “Iddru” tutelato e aiutato dal clan capeggiato da Giancarlo Buggea. Ma questa è solo un’ardita supposizione che solo il tempo (a nostro parere, non molto) potrà confermare o meno.

Infine, ragionando su queste vicende, ci viene molto difficile da pensare alla coesistenza e cooperazione all’interno dello stesso gruppo criminale dei clan stiddari con la mafia di Lillo Di Caro. E’ utile ricordare che proprio i Gallea, i Migliore e Rinallo appartengono a quel sodalizio di malfattori che uccise Giuseppe Di Caro, zio di Lillo (il 16 febbraio 1991) e tentò di assassinare lo stesso boss (11 marzo 1991), provocando la reazione di quest’ultimo – racconta la storia mafiosa agrigentina – che a tamburo battente pochi giorni dopo, precisamente 19, iniziò la sua vendetta ed il 30 marzo successivo un commando di  Cosa nostra trucidò Bruno Maurizio Gallea e Giovanni Gallea (il primo sospettato di aver fatto parte del gruppo di fuoco che attentò alla sua vita) davanti la sede della Questura di Agrigento.

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