Il Caffè letterario della Questura di Agrigento blinda la “Maledetta città di Alfonso Gueli
Dopo appena alcuni mesi dalla presentazione al Circolo Empedocleo della riedizione di “Maledetta città” ecco che nuovamente su suggerimento di Enzo Alessi, il libro di Alfonso Gueli viene ripresentato dal Caffè letterario della questura di Agrigento. Solo che stavolta la presentazione viene quasi blindata dallo stesso autore che col piglio registico sceglie i suoi attori, […]
Dopo appena alcuni mesi dalla
presentazione al Circolo Empedocleo della riedizione di “Maledetta città” ecco
che nuovamente su suggerimento di Enzo Alessi, il libro di Alfonso Gueli viene
ripresentato dal Caffè letterario della questura di Agrigento.
Solo
che stavolta la presentazione viene quasi blindata dallo stesso autore che col
piglio registico sceglie i suoi attori, i brani da leggere, suggerisce i tempi
e i modi al moderatore e infine propone Beniamino Biondi come relatore ufficiale. Inappuntabile regia
che si riflette anche sul pubblico intervenuto,
scelto e selezionato soprattutto tra i “lionisti-attori” che da ben sette anni
calcano la scena del Posta vecchia per
merito dell’infaticabile scrittore teatrale agrigentino.
Un
ben articolato pontificale molto familiare ben lontano dall’effetto dirompente
della presentazione all’Empedocleo
che era stato costellato dagli
interventi robusti del critico Salvatore Ferlita e dello psichiatra Fausto D’Alessandro sfociato poi (ineluttabilmente) su una accennata
psicoterapia di gruppo che la “Maledetta città” postulava e postula , sul come
eravamo e sul come siamo.
Gueli – scrivevamo allora – è sempre sornione, anche durante la
presentazione ammorbidisce il clima “da confessionale” che viene fuori quando le
battute del prefatore Salvatore Ferlita
si soffermano su “una città sull’orlo
del baratro” mentre il pubblico (il solito elitario piccolo borghese) si
innervosisce e se ne fa una ragione.
L’outing
di Alfonso Gueli riporta più equilibrio
quando dice:” Sono rimasto è vero, ma è
stata una scelta non un caso, una scelta che rifarei nonostante i momenti
grigi, le disillusioni e la ricorrente tentazione di smettere di scrivere”. Più
spiazzante era stato l’intervento di Fausto
D’Alessandro che ripuliva le “magnifiche
sorti e progressive” e stracciando le certezze negative ne insinuava delle
altre che andavano a comporre un quadretto più ragionevolmente problematico
quando si chiede “ e chi ce lo dice se questi due protagonisti del romanzo (Gueli
e la sua interfaccia che nel romanzo è il pittore e grafico Nicolò
D’Alessandro) non fossero invece due adolescenti in crisi? Questa città è
uguale a tutte le altre città. Questo discorso della città maledetta può esistere
in quanto dimensione antropologica. Se ha una dimensione civile è sempre
limitata al settore politico. Ma se per ipotesi non è politico ma solo un
risentimento civile, dobbiamo capire noi stessi, riconoscere gli altri e quindi
dobbiamo uscire dalla dimensione civile
e politica per entrare in una dimensione antropologica. Chiunque deve essere riconosciuto e per questo occorre una rivoluzione spirituale e non dico culturale
perché sarebbe troppo facile. La rivoluzione culturale consente il
riconoscimento dell’altro. Questo è un libro che ci consente una riflessione
personale non collettiva. Noi siamo molto avanti sul piano individuale ma siamo poveri nella condivisione collettiva”.
In questa occasione ha irrobustito l’incontro, invece, il relatore ufficiale Beniamino Biondi, poeta e scrittore agrigentino, “civil servant” di una città che, a nostro parere, non si merita tanto onore. Nel 78 quando il libro fu editato, Biondi aveva uno o due anni di età e a ragione molto avveduta narra di una città oblomoviana, immota nel tempo perché, sottolinea con forza, i templi e Pirandello sono il nostro alibi quasi che la città pindarica più bella dei mortali non avesse più bisogno di nulla.
Forse
ci piace dimenticare il Pirandello
più avvertito quando definiva l’allora Girgenti
“la morente cittaduzza” che si
concatena al copyright più recente del cardinale Montenegro “fiore appassito
dai petali calpestati”.
Dunque,
“Maledetta città” continua a far
discutere e dopo essere stata chiosata quarant’anni fa dal non dimenticato
poeta Antonino Cremona oggi e
l’altra sera Biondi ne parla con
appassionata verve ed è convinto che una approfondita lettura potrebbe
sollecitare quel tocco rivoluzionario che diventerebbe quasi un’azione di
igiene mentale per questo nostro
“popolo” chiuso a riccio nelle sue convenzioni e tradizioni.
“Maledetta città”- ha detto Biondi – “ha una sua pregnante attualità e ci
comunica più oggi di quanto abbia fatto ieri. Ci comunica l’idea che in questi
quarant’anni poche cose sono cambiate. Rimane la scrupolosa e cattiva
radiografia della città che si manifesta in brani di diario, litanie di
pensiero che diventano interrogativi severi sulle magnifiche sorti e
progressive che la città non aveva e probabilmente non ha. Questo libro lo
considero un romanzo di formazione, scritto con la prepotenza dell’io,
deliberatamente in prima persona e non ammette che ci siano altre persone se
non quelle che vivono tra le pagine del libro e che in un autore di teatro come
Gueli sono tollerate e legittime”.
Rimarrebbe
da approfondire, a nostro parere, questa propensione alla fuga del nostro Gueli, così problematica in “Maledetta città” e così radicalmente espressa in un suo
racconto che Gueli l’altra sera non ha inserito tra i brani
recitati. Si tratta del racconto “L’uomo
della grotta” inserito nella raccolta “Ombre
scolpite” dove il protagonista decide una sua rivoluzione francescana abbandonando tutti e
andando a vivere in una grotta urlando” continuate
voi a sbranarvi per la ricchezza e il successo, conquistate il potere se vi
riesce, finchè non vi mancherà il fiato correte incontro all’applauso di folle
osannanti. Rotolatevi nelle parole e nella viltà, mentite agli altri e a voi
stessi”.
Solo
che alla fine il racconto si chiude nel dubbio:”E se avessi sbagliato tutto?”- si chiede il protagonista
propendendo per il fascino discreto della borghesia.
La
chiusa del “Gattopardo”
probabilmente si dovrebbe mettere sempre ad epigrafe di molta letteratura: “E tutto trovò pace in un mucchietto di
polvere livida”.