Agrigento

Festa di San Calogero, l’uscita della statua dal santuario: il sindaco Miccichè dona un mazzo di fiori

L'omelia di mons. Damiano: "Possiamo dichiararci autenticamente suoi devoti solo se ne seguiamo l’esempio e possiamo onorarne la memoria"

Pubblicato 2 mesi fa



Si conclude la festa di San Calogero ad Agrigento. Tanti i fedeli già di buon mattino al Santuario per assistere alla prima messa della giornata e poi dalle 9.30 la Sagra del Grano, la processione offertoriale a base di prodotti della terra e lavori artigianali e corteo dei devoti portatori e fedeli seguiti da carretti siciliani, motoApe, muli e tammurinara.

Il Santo è uscito dal Santuario, sotto un sole cocente, per le 13, sotto i rulli dei tamburi de “I tammura di Girgenti” e le urla dei portatori “E chiammammu a cu n’aiuta”; il simulacro ha lasciato il santuario per percorrere tutta la via Atenea con le varie fermate per poi arrivare nel pomeriggio in via Garibaldi. Anche per questa domenica sarà possibile salire sulla statua nelle fermate stabilite che sono in via Roma di fronte la banca Unicredit, piazza Vittorio Emanuele dopo i carabinieri, Porta di Ponte davanti al bar PortaPò, via Atenea angolo chiesa Immacolata, via Atenea piazza Purgatorio, davanti la chiesa di San Giuseppe, piazza Pirandello di fronte chiesa San Domenico, via Garibaldi imbocco via Re e via Garibaldi chiesa San Francesco di Paola. 
Un momento emozionante durante la fermata nei pressi del comando provinciale dei carabinieri quando i portatori hanno sollevato una ragazza in carrozzina che ha baciato la statua e insieme a lei il papà, un vigile del fuoco in servizio al comando provinciale dei vigili del fuoco di Agrigento. Poi la processione è continuata e arrivata in piazza Pirandello il sindaco Francesco Miccichè ha donato un mazzo di fiori al Santo ed è salito anche lui sulla statua.

L’OMELIA DELL’ARCIVESCOVO ALESSANDRO DAMIANO PRONUNCIATO DURANTE LA MESSA

“Carissimi fratelli e sorelle, devoti di San Calogero, bentrovati!
Saluti … autorità – concelebranti …
Il 18 giugno scorso, memoria liturgica di san Calogero ho condiviso uno scritto di mons. F. Sortino su cui voglio tornare: «Ad un devoto di san Calogero dicevo tempo fa: “Ma perché onorare il Santo in una forma così chiassosa e disordinata da dare l’impressione di un baccanale? Guardi come sono composte, devote, edificanti le processioni del Corpus Domini, dell’Immacolata, del Venerdì Santo! … Veda, mi rispose, se venisse il Papa in Agrigento, noi accorreremmo devoti, composti, ci inginocchieremmo al suo passaggio, applaudiremmo nel modo più civile. Ma se viene un parente o un carissimo amico che non vediamo da tempo, ci precipitiamo ad abbracciarlo, baciarlo, gli diamo delle pacche sulle spalle, stappiamo bottiglie e facciamo chiasso per festeggiarlo!». Torno a ripeterlo: la pietà popolare ha ragioni che la liturgia non ha. Tuttavia possiamo dichiararci autenticamente suoi devoti – di san Calogero così come di Antonio, Francesco d’Assisi, di Paola … – solo se ne seguiamo l’esempio; e possiamo onorarne la memoria solo se la facciamo rivivere nelle nostre scelte e nelle nostre azioni. Può accadere, e accade, che non sia un bello spettacolo quello che date, di voi stessi, della Città, della Chiesa. Lo so, così va la vita, a volte male; ma non è necessario che vada sempre così. L’attrazione a San Calogero scorre nelle vene della pietà popolare di questo popolo, e qui è opportuno ricordare – ancora una volta – che la misura di un’autentica devozione è data dall’impegno di ogni devoto a superare il “canto delle sirene”, fatto di note deliranti, che inevitabilmente porta al naufragio tra gli scogli di gesti scomposti più vicini al linguaggio «scaramantico» che quello della fede cristiana. San Calogero, come tutti santi – e sopratutto la sua statua, come tutti i simulacri – non è un amuleto da tirare fuori tutte le volte che abbiamo un problema da risolvere, delle paure da esorcizzare. È un modello di vita secondo il Vangelo.
Da Calogero e i suoi compagni impariamo la frequentazione della Parola: perché umanizzi il nostro cuore, nutra la nostra mente, rinvigorisca le nostre forze. Si tratta di lasciare che la Parola avvenga nella mia vita. Dare carne e sangue alla Parola che anche io ricevo nella mia storia.
Portiamo la nostra attenzione al brano del Vangelo odierno. Inizia con l’espressione: “Chiamava a sé i Dodici” (v. 7), in greco è un indicativo presente che descrive un’azione continuativa, insistita, come di chi cerca di incoraggiare i discepoli a un’azione senza risparmio e dagli orizzonti ampi. Chiama a sé coloro che aveva già chiamato e costituito, portando così a compimento un processo iniziato sulla riva del lago. Siamo al terzo momento di un cammino in cui i discepoli sono: chiamati, costituiti e inviati. Prima chiamati individualmente, poi costituiti in un corpo comunitario, quindi innestati nella missione stessa di Gesù, che, per questo, “dava loro l’autorità sugli spiriti impuri” (v. 7), cioè condivide con loro la propria “autorità”, riconosciutagli fin dall’inizio della sua missione: l’autorità di una parola diversa da quella degli scribi (1,22) e di una parola risanatrice (1,27).
Ma per entrare in questa missione, che è la stessa del Cristo, è chiesto ai discepoli di assumere una forma particolare, accuratamente descritta in un passo che possiamo considerare la prima immagine di chiesa che il Nuovo Testamento ci presenta. Un paio di note: una chiesa in movimento: i Dodici sono “mandati” (v. 7) e si parla di una “strada” o un “viaggio” (v. 8) cui devono prepararsi. La missione chiede loro di uscire e di andare incontro, piuttosto che rinchiudersi e attendere di essere raggiunti; mandati “a due a due”, con un’immagine spiegabile in tanti modi, che non si escludono: qui sottolineo che due è il numero minimo perché una comunione sia possibile e dunque: perché l’annuncio sia espressione di una comunità, piuttosto che di un singolo, per quanto carismatico; e perché la prima parola dell’annuncio sia una vita realmente condivisa, piuttosto che tante parole anche ben congegnate. Due, inoltre, evita la “non bontà” dell’essere solo, secondo la parola della Genesi (Gen 2,18), e la possibilità di un sostegno reciproco, come ricorda Qoelet (Qo 4,9-12).
Il contenuto dell’invio, ciò per cui i Dodici ricevono l’autorità (exousía), è poi sintetizzabile in un’immagine: liberare dal male. Dice infatti l’evangelista: “Dava loro autorità sugli spiriti impuri” (v. 7). Azione ecclesiale per eccellenza è quella di togliere spazio al male che affligge la vita degli esseri umani. Questa è l’autorità conferita, come riverbero dell’azione del Maestro. Non diffondere una dottrina, ma seminare una parola capace di liberare dal male.Gesù invita poi a entrare e a dimorare nella casa di coloro cui si annuncia (v. 10). Sono immagini cariche di significato: l’inviato deve “entrare” nel mondo di colui cui si rivolge, e deve “dimorarvi”. L’annuncio ha bisogno di intimità, non lo si grida, non lo si ostenta, non se ne fa spettacolo. Ma soprattutto chi annuncia deve prima lasciarsi ospitare: deve ascoltare prima di parlare, deve imparare a ricevere prima di dare. San Calogero, ci insegni la piena docilità allo Spirito, ci accompagni nell’ascolto dell’umanità sofferente, in cerca di sollievo e di ferma speranza; aiuti tutti noi a raggiungere le strade e le case dove il Signore ci chiede di portare il suo saluto: «la pace sia su di voi»

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