Al Teatro Pirandello: ”Don Landolina, lei neanche a Cristo crede”
Poco più di nove anni fa “Il piacere dell’onestà” con Leo Gullotta e regia di Fabio Grossi. L’altra sera il Teatro Pirandello ha ospitato la stessa accoppiata Gullotta-Grossi con “Pensaci Giacomino”. Un ritorno che il pubblico agrigentino ha mostrato di gradire e con un Leo Gullotta che faticava a ritirarsi dietro il sipario, felice com’era […]
Poco più di nove anni fa “Il piacere dell’onestà” con Leo Gullotta e regia di Fabio Grossi.
L’altra sera il Teatro Pirandello ha ospitato la stessa accoppiata Gullotta-Grossi con “Pensaci Giacomino”.
Un ritorno che il pubblico agrigentino ha mostrato di gradire e con un Leo Gullotta che faticava a ritirarsi dietro il sipario, felice com’era di godersi gli applausi degli spettatori.
Da pochi minuti il grande attore catanese si era tolto la maschera del sarcastico disprezzo rivolto a Don Landolina (Sergio Mascherpa) lanciandogli l’invettiva che chiude il dramma pirandelliano: “Lei neanche a Cristo crede”.
Un Landolina che non esiteremmo a citare dopo il grande Leo per intensità ed efficacia interpretativa. Uno splendido e disgustoso prete uscito fuori da un qualche papato e in seria difficoltà a collegarsi con lo Spirito Santo. Mentre rischiano il macchiettismo gli altri interpreti ai quali il regista (e lettore drammaturgico della commedia) riserva una impostazione più verghiana che pirandelliana.
E questo nonostante Grossi scriva nelle sue note di regia:“Tutti i ragionamenti, i luoghi comuni, gli assiomi pirandelliani, sono presenti in questa opera. Un testo di condanna per una società becera e ciarliera, dove il gioco della calunnia, del dissacro e del bigottismo è sempre presente ad esibirsi. La storia racconta di una fanciulla che rimasta incinta del suo giovane fidanzato non sa come portare a termine la gravidanza, il professor Toti pensa di poterla aiutare chiedendola in moglie e potendola così autorizzare a vivere. Naturalmente la società civile si rivolterà contro questa decisione anche a discapito della creatura che nel frattempo à venuta al mondo”.
E che dovrà vedersela con tutto un mondo di “piccoli uomini feroci”, definizione che, come ricorderete, fu coniata dal giudice al quale Chiarchiaro (La patente), chiedeva giustizia.
Uomini feroci che lo spettatore si è trovato dinanzi entrando in sala dove su una tela che occupava tutto lo spazio scenico, campeggiavano i volti truci, tumefatti. Lombrosiani che richiamavano Kokoschka e il nostro contemporaneo Dario Ballantini. Echi post espressionisti che si ripetono nella scenografia di Angela Gallaro Goracci.
Indicazioni che invece non si ripetono con lo stesso aspro spessore negli altri interpreti per i quali la regia opta per una direzione verghiana che, però, a suo modo ci porta alla conoscenza dell’uomo e del suo funzionamento. Non per nulla la commedia continua a fare la felicità delle piccole compagnie amatoriali, come accadde per l’interpretazione di Angelo Musco in dialetto siciliano secondo l’originaria stesura di Pirandello. Che conoscendo bene l’angoscia e l’ansia che caratterizzava il secolo breve, (siamo nel 1917) la traspose in italiano, riconoscendo a questi piccoli uomini feroci una patente di umanità.
In tal modo il drammaturgo poneva i paletti tra il comico e l’umoristico, tra avvertimento del contrario e sentimento del contrario.
Da sempre un bel dilemma per l’interpretazione attoriale e registica.