C’è parecchio da sorridere su questa straordinaria galleria di personaggi che sta affollando la scena del nostro Teatro Pirandello.
L’ultimo è un Batman talmente casalingo che non si riesce a immaginare come la soave Lunetta Savino riesca a entrare nei suoi panni (qui carnevaleschi) per fare una carneficina finale nel “Grand Guignol all’italiana” per la regia di Alessandro D’Alatri, quinto appuntamento del Teatro agrigentino.
E meno male che l’autore (Vittorio Franceschi) lo definisce “all’italiana” temperando così una delusione palpabile nel pubblico agrigentino che ha riservato applausi di cortesia a questa opera tirata fuori dai cassetti “quindici anni dopo averla scritta” come viene ricordato nella brochure. E a tirarla fuori, viene sempre ricordato, è stato l’amico Alessandro D’Alatri, noto regista cinematografico di cui ricordiamo “I giardini dell’Eden”, un controverso (e per noi delicato) film su Gesù Cristo.
Che il Batman autore della carneficina finale che fa piazza pulita di salumieri arroganti, fedifraghe, cornuti e poetici gay, fosse una pallida controfigura del miliardario Bruce Wayne del fumettista Bob Kane, lo si era percepito da quel balzo sul tavolo (così poco felino) di Lunetta Savino che fa poi la maramalda su quel povero gay agonizzante imbottendolo di pallottole.
In questo finale l’unica che funziona a meraviglia è la scacciacani che fornisce una geometrica potenza di fuoco tanto da farci dimenticare quella scacciacani di “Non si sa come” (due anni fa al Pirandello) che non riuscì a funzionare nella scena finale e procurando una risata persino all’attore che doveva morire.
Se qui l’incidente uccideva il significato di quell’opera pirandelliana, in questo Gran Guignol la sparatina appare poco convincente, una forzata agevolazione di sceneggiatura che forse neanche quindici anni fa avrebbe funzionato a dovere. Una commediola, dunque, che sembra uscita dai “Fatti vostri” di Michele Guardì, assatanata di “sogni e bisogni” del piccolo cabotaggio offerto dalla tv mattutina, dove si passa il tempo a inventare nuove parole per l’inno nazionale, tra le avances buffonesche di un salumiere che fa a botte col cornuto, dribbla la fedifraga e va all’arrembaggio della Lunetta Savino inutilmente stesa sul tavolo nel tentativo di un amplesso.
“La storia non è importante – scrive Franceschi nelle sue note – corna, liti, strafalcioni, soldi come nelle migliori famiglie con immancabile “coupe de theatre” finale. C’è anche un cane che abbaia spesso però non entra mai in scena e quindi sarebbe elegante, pur nel clima consenziente della pièces, evitare battute facili”.
Il regista D’Alatri aggiunge anche che “i cinque personaggi, con i loro comportamenti, linguaggi ed il mondo che rappresentano ci accompagnano nel grande vuoto di questi tempi riempiendolo di surreale comicità. E’ uno spettacolo surreale ma veritiero”.
Dichiarazioni che appaiono una onesta autocritica.
Morale finale? Forse questa: “Non è necessario credere in una fonte soprannaturale del male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità.” (Joseph Conrad) .
Se questo volevano dirci il direttore artistico Lo Monaco e il sindaco Firetto che firma il cartellone, allora occorre ricordargli che altre opere avrebbero fatto di meglio. Occorreva rivolgersi, per non andare lontano e valorizzare gli autori siciliani, a Emma Dante, per esempio alla sua “Carnezzeria” e “Cani di bancata”. Una drammaturga, la Dante, mai invitata dai cervelloni del “Teatro Pirandello”.
A meno che il granguignol all’italiana sotto mentite spoglie, voleva ricordarci che forse solo un’apocalisse potrà un giorno mettere fine alla società borghese e dare l’inizio ad un‘inesorabile rieducazione della famiglia media contemporanea, da troppo tempo arroccata nel suo tiepido e soporifero microcosmo.
Cos’altro sono il ddl Cirinnà e il Family day?
Certo, una lettura spietata e irriverente che disvela gradualmente la mostruosità che si nasconde dietro alla graziosa facciata del benessere, inanellando trovate e gag capaci di suscitare copiose risate a denti stretti.
Quelle di “Grand Guignol all’italiana” non bastano proprio. E arrivano fuori tempo massimo.
Testo e foto di Diego Romeo