Pirandello, Eduardo, Ruccello, ormai è questo il crinale o la dorsale italiana del teatro sulla quale ci dovremmo inerpicare per chissà ancora quante centinaia di anni.
Certo, oggi in Italia abbiamo Stefano Massini e la new entry Livia Ferracchiati, o meglio Liv Ferracchiati, transgender, che ha scritto una trilogia della diversità. Una scrittura incisa sulla sua pelle e che “lei/lui” stesso porta in scena senza scomodare, Sarah Kane, Silvia Plath o lo stesso Ruccello. Quel Ruccello autore di “Anna Cappelli” che il “Teatranima” di Agrigento ha portato in scena al “Posta vecchia” sotto il titolo di “Anna e le altre” per la regia di Salvo Di Salvo e l’interpretazione di un folto gruppo di attrici che Di Salvo si sta crescendo nel suo Laboratorio “Teatranima”: Ida Agnello, Giusi Urso, Consilia Quaranta, Rita Balistreri, Salvo Preti, Zaira Picone, Antonella Danile, Alessia Di Santo, Claudia Frenda.
Ben sette le interpreti fra le quali Di Salvo ha spezzettato l’originario monologo di “Anna Cappelli”, punta di diamante per numerose grandi attrici. Siamo al sesto appuntamento della rassegna in memoria dell’attrice agrigentina Mariuccia Linder, una rassegna che pur non essendo indirizzata a un “teatro per tutti”, tra le sue pieghe ha fatto emergere sprazzi di scuotimento che arrivano al cervello e alla pancia dello spettatore talora come una frustata e talora come una dolentissima carezza che al di là della qualità delle interpretazioni costringe a svegliarsi dal letargo mentale con la complicità di uno sguardo sghembo sul mondo.
Prendiamo questo “Anna e le altre” che inizia “alla masterchef” con quell’evento minuscolo rappresentato dal mangiare un piatto di spaghetti e finisce invece col dilemma di Anna che si chiede quante spezie servono per cucinare il corpo, già in pentola, del suo amato Tonino che l’aveva abbandonata dopo anni di convivenza e cosa dovrà farne delle sue ossa.
Anna Cappelli – ci ricorda Di Salvo – è una provinciale insoddisfatta e in guerra col mondo. La sua è una vita fatta di cene solitarie e di domeniche al cinema, ma un giorno le si avvicina il ragioniere Tonino Scarpa: è l’unico essere umano che non la esclude, anzi, la invita a uscire, la lusinga. Questo incontro per Anna rappresenta l’occasione di cambiare in meglio la propria vita. Innamorata, si sente pronta ad intraprendere una convivenza: sfiderà il mondo andando a vivere a casa del compagno, e da quel momento difenderà il suo nuovo status sociale con le unghie e con i denti, letteralmente.
Una figura femminile apparentemente docile e insignificante, ma capace di covare un furore omicida, sempre sull’orlo dello sdoppiamento di personalità. Logorata dalla follia della normalità, fino all’esplosione finale quando Tonino l’abbandona. Ruccello ci spinge ad una lettura antropologica e se fosse ancora vivo non esiterebbe a indicarci la lettura di Francesco Piccolo e del suo “L’animale che mi porto dentro” (Einaudi) dove si spiega il perché e il per come siamo assediati da una bestia antica che ci divide a metà. Non senza ricordarci il pensiero pasoliniano sull’omologazione e il devastante consumismo che il poeta di Casarsa andava enucleando proprio in quegli anni settanta che sono stati il periodo felice della creatività di Ruccello. Quanta ragione abbiano Piccolo, Pasolini e Ruccello ognuno lo può verificare nell’attualità quotidiana con il rigurgito di un fondo limaccioso di brutalità che la cultura non ha saputo prosciugare. Necessariamente rischiosa ci è apparsa la soluzione di Di Salvo nel suddividere il monologo fra sette delle sue attrici di punta del suo Laboratorio, attività che ancora oggi lo induce a delle scelte e a una cifra stilistica non pienamente dispiegata. Anche se i risultati sono qui rigorosi.
Da notare che questa opera del Ruccello è cronologicamente la quarta che viene rappresentata ad Agrigento dopo “Le 5 rose di Jennifer”, “Notturno di donna con ospiti” e “Ferdinando”, circa dieci anni fa.
testo e foto di Diego Romeo