La visione prevalente in America ed in Europa della guerra ucraina è connotata da un preciso approccio. La Russia ha invaso l’Ucraina, ha invaso una democrazia, intende, quindi attaccare le democrazie e l’idea di democrazia e il valore tipico dell’Occidente, cioè quello di libertà. Di conseguenza bisogna aiutare l’Ucraina a resistere rispondendo alla guerra con la guerra e, quindi inviando armamenti e istruttori. Corollario di una tale impostazione è l’ampio uso della tradizionale retorica bellica tesa ad incentivare la competizione militare fino al raggiungimento della vittoria sul campo o quantomeno del ritiro dal campo del nemico.
Ogni altra ipotesi sembra esclusa, compresa quella di trattative di pace che possono concedere qualcosa alle rivendicazioni dell’altra parte aventi una qualche ragion d’essere (nel Donbass non c’è forse una consistente popolazione russofona?). Si è creata, dunque, una situazione che vede tutti gli Stati che stanno inviando armi come effettivi partecipanti alla guerra.
Lo scenario, quindi, che vede coinvolte anche le due potenze che si sono scontrate durante la guerra fredda, è già uno scenario da terza guerra mondiale, che richiede di utilizzare seriamente altri strumenti ridimensionando la logica della soluzione del nemico abbattuto sul campo di battaglia. Molto è stato detto dal vituperato pensiero diverso sulla sospetta semplificazione che concepisce l’assoluta gratuità del pur riprovevole intervento militare russo. Bisognava accennare alla piccola guerra esistente dal 2014 nel Donbass, caratterizzata anche da significativa violenze subite dalla popolazione russofona (l’Ocse, organismo occidentale, ha condannato le azioni del battaglione Azov, oggi elevato al rango di eroe della resistenza, con queste parole: ”responsabili dell’uccisione di massa di prigionieri, di occultamento di cadavere nelle fosse comuni, dell’uso sistematico di tecniche di tortura fisica e psicologica”).
Bisognava accennare alla notevole espansione, dopo la caduta dell’URSS e in dispregio alla promessa fatta a Gorbaciov (oggi elevato al ruolo di antiputiniano), dei paesi facenti parte della Nato aumentati da 12 a 30 con l’inclusione di nazioni confinanti con la Russia o già facenti parte dell’URSS. Bisognava accennare alla destituzione, su pressione americana, nel 2014 del presidente ucraino Janankovic, colpevole di sostenere un progetto di neutralità della nazione (la quale doveva essere sottoposta, invece, all’influenza americana e della Nato). Una domanda è legittima: se i suesposti eventi non si fossero verificati l’attuale azione bellica della Russi avrebbe avuto luogo? Ma esiste un altro aspetto, non sufficientemente messo in evidenza, che merita di essere attentamente analizzato. La libertà e la democrazia, di cui si rivendica la difesa ad oltranza, quali caratteri possiedono? La libertà e la democrazia, di cui i governanti USA e la Nato si ritengono vessilliferi e guardiani eticamente qualificati, non sono quelle appartenenti al pensiero e alla prassi di un certo tipo di uomo occidentale lontano dagli intrighi del potere. Suscita una significativa chiarezza esaminare il rapporto tra i poteri dominanti in USA, e di riflesso nella Nato, e i valori in questione dal dopoguerra ad oggi.
I primi decenni dopo il dopoguerra furono caratterizzati da una economia la cui natura capitalista venne attenuata dalla introduzione dello stato sociale costruito secondo principi più o meno collegabili al pensiero di Keynes. Ma una tale situazione contrastava con le pretese economiche di un capitalismo più ferreo. Contrastava in ultima analisi con una pretesa di libertà piena, la libertà di un mercato che potesse operare senza limiti, quei limiti posti da stati che intendevano tutelare e promuovere interessi pubblici. Le forze del mercato pretendevano di operare senza ostacoli sulla base dei propri interessi. Particolarmente pretendevano di operare utilizzando tutte le risorse disponibili senza che parte di esse venissero distratte dallo stato per le sue pubbliche finalità, soprattutto quelle di sostegno alla popolazione in difficoltà. La pretesa di privatizzare quanti più beni pubblici possibili, compresi quelli di più fondamentale uso pubblico, ne costituisce una prova. Tale pretesa, purtroppo, si è concretizzata in una serie di eventi storici che hanno visto il protagonismo di istituzioni americane al servizio di potentati economici. La consulenza e l’appoggio dato da poteri e strutture degli USA hanno consentito l’instaurazione in America latina di dittature molto repressive finalizzate all’attuazione di precise riforme favorevoli alle prassi economiche di multinazionali ( si vedano la dittatura di Pinochet in Cile, quella dei generali in Argentina, quella in Brasile), hanno fatto approvare in Bolivia riforme economiche deteriori per la popolazione, hanno favorito l’eliminazione in Indonesia di molti militanti comunisti consentendo l’avvento al poter di un dittatore. Per non parlare delle stragi in Italia, alla luce, soprattutto, delle ultime indagini giudiziarie, secondo le quali un ruolo importante hanno svolto associazioni segrete come Gladio e la P2 di Licio Gelli (entrambe mobilitate da poteri esterni).
La presenza di un forte partito comunista, la possibilità di una sua partecipazione al governo, la possibilità della formazione di un consistente stato sociale di cui si vedevano i prodromi (ad esempio nazionalizzazione dell’energia elettrica e approvazione dello statuto dei lavoratori) erano pericoli da fronteggiare con qualsiasi mezzo. In questa, molto sintetica e parziale, ricostruzione non può mancare un cenno alla situazione della Russia subito dopo la caduta del muro di Berlino. Il tentativo di Gorbaciov di trasformare l’URSS in una federazione democratica con una economia di stampo più o meno socialdemocratico fallì anche per l’intervento dell’occidente e del suo stato egemone. Nel G7 del 1991 a Gorbaciov che chiedeva sostegno per la sua politica di transizione non fu data alcuna risposta, ma piuttosto gli fu fatto capire perentoriamente che rischiava di essere abbandonato, se non avesse promesso di promuovere un’economia radicalmente neo-liberale. Così Gorbaciov commentò l’episodio in un suo scritto:” I loro suggerimenti sulle tempistiche e i metodi della transizione erano sconvolgenti”. A Gorbaciov successe il disastroso periodo di Eltsin che diede, assistito da consulenti economici americani, una certa spinta al progetto neo-liberale (l’approdo alla svendita di beni pubblici russi con il soddisfacimento del privato locale e internazionale è in proposito significativo).
(prima puntata – *già Provveditore agli studi di Ragusa)