“Ci sono verità che non scopriremo mai. Se penso a quanto avvenuto per Ustica o per altre stragi d’Italia. Non lo sapremo perché se si andasse fino in fondo si troverebbero responsabilità di uomini appartenenti ai settori economici e dello Stato”. Con queste parole Franca De Mauro, la figlia del giornalista de L’Ora, rapito da un commando mafioso davanti ai suoi occhi la sera del 16 settembre 1970, commentava un paio di anni fa, il giorno dell’inaugurazione della targa commemorativa in via delle Magnolie.
Questa mattina, alle 9.30, si torna su quella via alla manifestazione organizzata dall’Unione nazionale cronisti italiani. Saranno presenti i familiari di De Mauro a cominciare dalla figlia Franca. Interverranno anche il vice-presidente nazionale dell’Unci, Leone Zingales, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, il prefetto Antonella De Miro ed i vertici regionali dell’Ordine dei Giornalisti e dell’Assostampa.
De Mauro, cronista de L’Ora, era nato a Foggia nel 1921. A seguito della sua scomparsa vennero battute diverse piste dalle forze inquirenti. Tra le principali seguite dagli inquirenti spiccava quella relativa ad un’inchiesta sulla morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, che il cronista si accingeva a raccontare. Ma venne tenuta in considerazione anche la pista cosiddetta del “golpe Borghese”. Anche se su quest’ultima non vi sono abbastanza riscontri per i giudici che hanno approfondito il caso.
De Mauro, la sera in cui fu rapito aveva appena posteggiato la sua auto, una Bmw, accanto al portone d’ingresso del palazzo in cui abitava, in viale delle Magnolie. I sicari di mafia gli tesero una trappola e De Mauro venne rapito. Poche ore dopo la sua auto fu ritrovata in via Pietro D’Asaro nella zona di via Dante, sempre a Palermo. Secondo il pentito Francesco Marino Mannoia i resti del giornalista rimasero sepolti per diversi anni sotto un ponte del fiume Oreto ma successivamente i capimafia della zona decisero di rimuovere le ossa che furono sciolte in un fusto pieno d’acido.
Il bollo della Cassazione
E’ dell’anno scorso la sentenza della Cassazione che ha messo definitivamente la parola “fine” su un caso che resta “senza colpevoli” e che presenta non pochi buchi neri.
Totò Riina, il Capo dei Capi di Cosa nostra, è stato assolto per non aver commesso il fatto dai Supremi giudici. La medesima conclusione delle corti d’Assise e di Appello di Palermo. Eppure per avere un’idea su quanto accaduto in quella notte, il perché qualcuno lo prelevò in Via delle Magnolie senza poi fargli fare più ritorno a casa, è necessario addentrarsi nella lettura delle motivazioni della sentenza di primo grado.
In oltre 2200 pagine di documento vi è comunque una traccia di un quadro inquietante dove restano evidenti pesanti collegamenti con la morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, su cui la vittima indagava per conto di Franco Rosi nei giorni precedenti l’assassinio, ma anche il coinvolgimento di soggetti di prim’ordine come il “Mister X” Vito Guarrasi ed il senatore della Dc Graziano Verzotto.
Il giornalista stava contribuendo alla stesura di una sceneggiatura per conto del regista Francesco Rosi, per ricostruire gli ultimi giorni di vita del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, in Sicilia ed in particolare su quanto accaduto il 27 ottobre 1962.
Un’indagine approfondita in cui De Mauro sarebbe anche riuscito a scoprire i nomi delle persone che erano al corrente dell’orario di partenza del volo di rientro di Mattei, all’epoca tenuto segretissimo per ragioni di sicurezza, prima che il piccolo aereo si schiantasse a Bescapé, nei pressi di Pavia.
La traccia Mattei
Per portare avanti l’incarico De Mauro si muoveva sul campo, a Gela ed a Gagliano Castelferrato, dove anni prima si era recato Mattei, intervistando e contattando i vari personaggi incontrati dal presidente dell’Eni in Sicilia.
Quegli appunti per la sceneggiatura erano stati inseriti in una busta gialla, che in molti ricordano di avere notato tra le mani di De Mauro fino al giorno stesso della scomparsa.
Ed è in quella busta gialla, scomparsa, che è contenuta la verità sull’omicidio Mattei. Scrivono i giudici: “La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè”. E poi ancora: “Nella sceneggiatura approntata dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell’ipotesi dell’attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.
Proprio la sentenza De Mauro fornisce un’importantissima chiave di lettura sulla morte del presidente dell’Eni, simulata da incidente aereo nei pressi di Pavia il 27 ottobre 1962. Nella lettura dei giudici si indica come mandante dell’omicidio Graziano Verzotto, ex dirigente dell’Eni, all’epoca segretario regionale della DC, morto il 12 giugno 2010, prima dell’ultima deposizione in aula, a Palermo.
Questi, secondo la Corte, ha un ruolo centrale sia nell’assassinio di Mattei che nel sequestro e nell’omicidio di De Mauro.
“Se Guarrasi è colpevole (dell’omicidio De Mauro n.d.r.), Verzotto lo è due volte di più” scrivono i giudici.
Per la Corte di Palermo, l’interesse dell’ex Dc per il lavoro di De Mauro era “duplice“. In primis perché “si riprometteva di strumentalizzarlo in chiave anti-Cefis”, in quanto nell’estate del ’70 ambiva alla sua successione come presidente dell’Eni. Poi perché aiutando De Mauro si garantiva “un osservatorio privilegiato per orientare la sua inchiesta e indirizzarla con opportuni suggerimenti, secondo la propria convenienza”.
Questo “fino al momento in cui si è reso conto che il cronista, pur fidandosi ancora di lui, era troppo prossimo a scoprire la verità: e a quel punto doveva essere eliminato”. Secondo i giudici di Palermo la rivelazione di un attentato a Mattei, progettato con la complicità di apparati italiani (e forse con il supporto della Cia), avrebbe avuto “effetti devastanti per i precari equilibri politici generali, in un paese attanagliato da fermenti eversivi e tentato da svolte autoritarie”.
E’ per questo motivo che vengono allertati gli alleati mafiosi di Verzotto e dei cugini Salvo: ovvero i boss Stefano Bontade e Giuseppe Di Cristina sancendo di fatto la delibera alla morte del giornalista. Erano in tanti, infatti, all’interno di Cosa Nostra, che non volevano far conoscere i retroscena del delitto Mattei, ovvero quello che il collaboratore di giustizia “Masino” Buscetta aveva definito come “il primo delitto della Commissione”.
Insabbiamenti e depistaggi
Se il “caso De Mauro” sembra davvero essere senza fine la causa è da ricercare nei continui insabbiamenti e depistaggi che hanno caratterizzato le indagini. Sono tanti i pezzi mancanti del puzzle di questa storia che assume sempre più i colori del “giallo”.
Nel dispositivo che ha chiuso il processo contro Riina i giudici avevano evidenziato alcune posizioni di testimoni apparsi falsi tanto che la Corte ha tramesso gli atti al Pubblico Ministero perché proceda per falsa testimonianza nei confronti dell’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, dei giornalisti Pietro Zullino (morto nel gennaio scorso) e Paolo Pietroni e dell’avvocato Giuseppe Lupis. Tutti avrebbero avuto un ruolo depistante nelle indagini e questo verrà approfondito in un nuovo dibattimento.
Nel corso degli anni le difficoltà per ricostruire la verità si sono manifestate a più livelli. Basti pensare alle indagini iniziali, che si erano concentrate verso direzioni differenti per poi infrangersi muro del silenzio. Per non parlare poi della singolare “assenza di notizie” negli archivi dei servizi e degli apparati investigativi. A queste si aggiungono le pagine strappate dai quaderni di De Mauro, la scomparsa degli appunti e del nastro con l’ultimo discorso di Mattei a Gagliano, che secondo le testimonianze dei familiari il giornalista “ascoltava e riascoltava in continuazione”.
Addirittura la sentenza pone l’attenzione sulla scomparsa del materiale all’interno di uno dei raccoglitori conservati in un armadio a casa De Mauro, il cui titolo era “Petrolio”. Un nome che riporta al romanzo a cui stava lavorando Pier Paolo Pasolini prima di morire.
Strane coincidenze che aprono a nuovi scenari d’indagine.
Peccato che sul depistaggio, e con essa forse la verità completa sul caso De Mauro, si sia abbattuta la scure della prescrizione.
di Aaron Pettinari