Si sa tanto sul caso Mattei, ma non sino al punto, sessant’anni dopo la sua morte, di conoscerne i responsabili. Mandanti, complici ed esecutori. Li si può solo fondatamente immaginare. Sappiamo che il suo aereo, in volo da Catania a Milano e precipitato nella marcita di Bascapè (comune della Lombardia), era stato sabotato prima della partenza. E che l’incendio durante il volo e la caduta non furono un incidente, dovuto a guasto meccanico o ad errore umano, come per troppo tempo venne fatto credere. Sappiamo che erano in molti a volere la morte dell’uomo che sognava la via italiana al petrolio. Dal potente Cartello petrolifero ai politici (non solo italiani ma anche americani e francesi) che mal sopportavano il suo invadente protagonismo sulla scena internazionale, i suoi rapporti industriali con l’Unione Sovietica, fino a quanti all’Eni aspiravano a prenderne il posto. Sappiamo infine che tanti libri-inchiesta, dettagliati ed esaustivi, sono stati pubblicati. E che tutti del caso Mattei hanno ricostruito l’intreccio e gli intrighi, le piste e i possibili moventi del delitto.
L’aereo su cui viaggiava il presidente e fondatore dell’Eni precipitò nel tardo pomeriggio del 27 ottobre 1962. E da quel momento, come scrive Giorgio Galli, “il giallo entra nel sistema politico italiano. Comincia la ridda dei testimoni che cambiano opinione, delle prove che scompaiono, dei servizi di sicurezza che non funzionano o fanno il contrario di quello che dovrebbero fare”. In Sicilia Enrico Mattei, il petroliere senza petrolio, era venuto ufficialmente per visitare lo stabilimento di Gela e per incontrare la popolazione di Gagliano dove stava per sorgere un impianto dell’Eni. Ma altre voci, in verità poco attendibili, corrono sulla sua venuta nell’Isola. Di un suo incontro con alcuni emissari libici. O di farvi tappa per poi proseguire verso l’Algeria per chiudere accordi con Ben Bella.
Ѐ vero invece che c’era chi conosceva e seguiva i suoi movimenti, che il sistema di protezione attorno a lui era stato allentato, tanto da permettere a chi sabota il suo aereo di poterlo fare tranquillamente, e che anche le sue amicizie sul piano internazionale si erano indebolite rendendolo più esposto e vulnerabile. Mattei aveva ancora delle carte da giocare: quelle del petrolio in Libia e nel Sinai. Ma in un contesto in cui già maturavano i presupposti che avrebbero reso la sua sfida, personale e politica, destinata alla sconfitta. I suoi successori all’Eni continuarono a trattare con il potente Cartello dei petrolieri. Ma lo fecero da posizioni di inferiorità e debolezza e dopo aver sconfessato la politica industriale di Mattei. Che era, appunto, di sfida. La sfida di un megalomane per i suoi nemici e detrattori; di un grande uomo d’industria per i suoi ammiratori.
Quel che ci resta oggi del presidente dell’Eni è l’immagine di un industriale visionario e proteso verso i paesi emergenti cui offrire tecnici e mezzi per l’estrazione di gas e petrolio. Negli anni Cinquanta del secolo scorso già sognava l’indipendenza energetica dell’Italia e la rottura del monopolio delle multinazionali. Un’immagine la sua attualissima dunque in tempi di guerra e di dipendenza energetica.