Nelle stesse sere in cui a Palermo, teatro Biondo, andava in scena “I giganti della montagna” per la regia e l’interpretazione di Gabriele Lavia, sulla scena del Teatro Pirandello andava in scena “Figlie di Eva”.
Ma si, le figlie di quella signora che offrì la mela ad Adamo, ambedue progenitori dell’umanità, secondo la tradizione biblica e che avrebbero causato il peccato originale. E chissà se questa biblica narrazione non abbia suggerito all’uomo impenitente di tenere la donna sotto “stretta sorveglianza” causando maschilismi seriali e di contro femminismi che ancora si arrovellano e si avvolgono per contrappasso in altri sterili neo-maschilismi.
E mentre Mago Cotrone, al Biondo, mette in guardia dai nuovi oppressori occulti, al Pirandello tre donne oppresse riescono a monetizzare la loro condizione femminile fondandoci addirittura un partito (denominato “Figlie di Eva”) che nei loro intenti dovrà risarcirle dalle umiliazioni subite.
Una architettata vendetta per “distruggere un cinico candidato a sindaco proprio sul terreno in cui si sente più forte; la politica. E’ la storia – sta scritto nelle note del regista Massimiliano Vad – di una solidarietà ma anche di una condizione femminile costretta a stare un passo indietro ma capace, se provocata, di tirare fuori risorse geniali e rimontare vincendo in volata”.
Che sia andata per il verso giusto così come hanno voluto gli autori (Michela Andreozzi, bravissima interprete e moglie del regista), Vincenzo Alfieri e Grazia Giardiello (collaudati sceneggiatori di tv, cinema e teatro), avremmo qualche dubbio. La soluzione ci è sembrata poco “vicariante” come si dice in psichiatria e aggravata dal fatto che il passato delle tre “tappinare” (così li avrebbero chiamate le nostre nonne), non depone certo a favore di una linearità accettabile visto che tutte e tre si erano legate allo stesso “uomo politico spregiudicato, corrotto e doppiogiochista, candidato premier delle imminenti elezioni”.
Così dipinte dagli autori le tre donne ne escono malconce: Elvira è la sua assistente prediletta, una specie di Richelieu in gonnella; Viki la moglie (Maria Grazia Cucinotta) è artefice della fortuna economica del marito e Antonia una professoressa che vende voti all’università.
L’uomo che non si vede mai, dopo averle usate per arrivare in vetta le scarica senza mezzi termini.
Per una simile situazione il legale difensore di un Weinstein qualsiasi ci avrebbe gongolato imbastendo una furibonda arringa difensiva. Ma le cose vanno diversamente visto che la stessa moglie viene lasciata per una miss appena maggiorenne. E così alle “tappinare” (direbbe mia nonna) non rimane altro che prendere dalla strada un giovane (Marco Zingaro) che viene sommariamente educato a tutte le strategie attinenti al consenso del “popolo bue”.
E fin qui una riflessione sui nostri pupi e pupari, esperti e imbelli, si può fare.
Quello che non si dovrebbe fare è l’accettazione di una architettura teatrale dove le agevolazioni di sceneggiatura si sprecano anche se divertono la solita piccola e media borghesia che affolla il teatro e che applaude a scena aperta i colpi di “minghia alla siciliana” della brava Cucinotta e le battute delle bravissime Michela Andreozzi e Vittoria Belvedere che si innamora dello sprovveduto, ma non tanto, sindaco Marco Zingaro anch’egli perfettamente allineato all’egregia regia.
Soddisfatto il popolo fanciullo agrigentino anche se ci rimane il fondato sospetto che tre donne sulla scena fanno sempre danno come ci ricordano i citati (dal regista) film “Il club delle prime mogli” e “ Le streghe di Eastwich”.
Tutti film risalenti agli anni Ottanta e meno male che a questi film di forzate commedie mise fine nel 1992 il commediografo Edward Albee che con “Tre donne alte” vi pose una pietra tombale.
Proprio come fece Mario Monicelli nel 1979 con il suo “Borghese piccolo piccolo” che pose una pietra tombale sulla commedia all’italiana.
E tutto il resto diventò “panettone”.