Agrigento

Nel “Caso Tandoy” non tutti ci sono e non tutti lo sono

«Tandoy era un bravo funzionario rispettato da tutti. La mafia non ha mai dato fastidio alle autorità e meno che mai ai poliziotti. […] E poi, mi dite dov’è questa mafia? Dove sono questi delitti mafiosi?».

Aveva le sue ragioni diramate alla stampa,  il prefetto di Agrigento, Querci, in quel marzo 1960.

E aveva anche le sue ragioni il cardinale Ruffini di Palermo. Per Sua Eminenza la mafia non era precisamente la cattiva pianta le cui “cosche” lottavano ferocemente per spartirsi la città, ma era soltanto il nome che una pubblicistica denigratrice continuava a dare a una forma associativa di delinquenza uguale a quella del resto d’Italia e  il Gattopardo era diventato purtroppo, per una grande moltitudine, la fonte storica della Sicilia».

Nel mentre, Danilo Dolci veniva dileggiato e denunciato come “il terzo dei fattori in base ai quali si continuava a ordire una precisa congiura per disonorare la Sicilia”.

Dal canto suo Indro Montanelli  in  un suo reportage rivelava di aver visto a Palma di Montechiaro cose miserabili che neanche in India aveva visto.

In quel marzo 1960 questa era la temperie siculo-italiana.

Il Financial Times assegnava all’Italia la valuta più stabile, Carlo Cassola scriveva  “La ragazza di Bube”, Alberto Moravia “La noia”, un mese prima a Milano era stato proiettato in prima assoluta il film La dolce vita di Federico Fellini e furenti erano le polemiche che aveva suscitato. Moralisti e detrattori dell’ultim’ora bollarono il film come una “Babilonia precristiana” mentre il direttore di “Civiltà cattolica” che condivideva il film felliniano condusse il regista riminese dal potentissimo card. Siri ai cui piedi Fellini si inginocchiò chiedendo clemenza.

La dolce vita rompeva il vaso di Pandora, rovesciava  fuori tutto il bigottismo ipocritamente  sessuofobico e ne uscivano malissimo i notabili romani assistenti al soglio pontificio sorpresi a plaudire lo streep tease della ballerina turca Aichè Nanà.

Il riverbero devastante del film di Fellini condizionò  gli esiti del “Caso Tandoy” che Michele Guardì porta sulla scena del Teatro Pirandello. Un delitto truce e trucido del commissario di Polizia Cataldo Tandoy ad opera della mafia.

Un peccato di vanità quello del procuratore, lo definisce Guardì, ma che penalizza i dialoghi eccellenti con una impostazione parziale dell’accaduto  e a nostro parere insufficiente per mettere Agrigento dinanzi “ad uno specchio” come un corso annunciato di formazione vorrebbe fare. Proprio quell’Agrigento con  i  suoi ”mandamenti”,  che un altro cardinale, mons. Montenegro, alcuni anni fa definì “fiore appassito dai petali calpestati” mentre molto più recentemente il prefetto  di Agrigento, Cocciufa, ha avvertito “non sempre all’altezza dei complessi compiti e con apparati amministrativi caratterizzati da carenze di professionalità” e con una  cittadinanza, che non offre modelli positivi di reazione a gravi fenomeni”. La povertà culturale, non disgiunta da quella economica, determina una situazione di arretratezza nella quale continuano a proliferare le regole dettate dalla criminalità organizzata. Anche gli Enti locali, stentano a rispondere adeguatamente alle istanze dei cittadini; tale situazione è aggravata dalla assenza di organismi intermedi espressione della c.d. “società civile” particolarmente restia a impegnarsi e a partecipare fattivamente a quello che dovrebbe esse il perseguimento del “bene comune”.

In prima battuta non così la pensava il procuratore inquirente (Giuseppe Manfridi) cocciutamente fermo a “Cherchez la femme” e sul cui personaggio il regista e autore  Michele Guardì (in scena Gianluca Guidi) gioca tutte le sue carte con una insistenza  tra il feuilleton e il legal-thriller e che in parte viene riscattato alla fine da una riflessione ad alta voce: “Neanche alla magistratura certe volte è consentito salire certi gradini”.

Appare quindi poco utile alle giovani generazioni la scelta dell’autore Guardì a preferire sulla scena  la paranoia inquisitoria dell’allora procuratore di Agrigento, solo alludendo a quello sfondo criminale che per la provincia agrigentina, e non solo,  rappresentò il prodromo  di altri delitti politici.

Eppure l’esperienza dell’autore Guardì avrebbe dovuto frenarlo nella foga di fare spettacolo e suggerirgli più cautela, invece si è lasciato conquistare dai risvolti farseschi confermati in una sua intervista: “Nemmeno l’autore più fantasioso avrebbe mai pensato a una ricostruzione come quella del procuratore di Agrigento: ed è qui che si innesta l’ironia. Il pubblico si trova di fronte a uno spettacolo che non immagina: la storia di Tandoy è un pretesto per un affresco sulla vita, di ieri e di oggi. Ciò che ne viene fuori è straordinariamente curioso. Di solito si dice che nelle tragedie c’è sempre un pizzico di farsa: “Il caso Tandoy” non fa eccezione”.

Ed è proprio qui che l’autore regista  tocca il tasto della “tanatoprassi” che, come si sa, è una operazione di trattamento finalizzata a bloccare solo temporaneamente i processi putrefattivi ma purtroppo di marciume politico è intessuto questo “caso Tandoy” che paradossalmente viene così “ingentilito” da battute “boulevardier”.  

Di sperimentata bravura gli attori  da Guidi a Manfridi, a Gaetano Aronica, a Caterina Milicchio, Noemi Esposito, Antonio Rampino, Marco Landola, Roberto Iannone, Marcella Lattuca ( agrigentina che si era già rivelata attrice duttile in “Ritorno a casa” di Pinter al Posta Vecchia di Agrigento).

Locandina Caso Tandoy
Caso Tandoy, scena (foto di Diego Romeo)
Locandina Caso Tandoy
Caso Tandoy, scena (foto di Diego Romeo)
Caso Tandoy, scena (foto di Diego Romeo)
Caso Tandoy, scena (foto di Diego Romeo)

Ci è piaciuto molto il finale allorchè con un tocco di regia vendicativo “alla conte di Montecristo” l’autore Guardì fa chiudere la commedia al personaggio Mario La Loggia interpretato da Gaetano Aronica e gli fa mostrare il cartello epigrafe “Qui non tutti ci sono e non tutti lo sono”. 

Un uomo solo, Mario La Loggia, negli ultimi anni della sua vita e lo scrivo perché diventammo “quasi amici” quando volle vedere il mio primo film che lui mi aveva permesso di girare all’interno dell’ospedale psichiatrico. 

E quando collaborai con Tele Video Agrigento volli tirarlo fuori dalla solitudine invitandolo diverse volte ai dibattiti televisivi non senza avermi attirato i mugugni dei soliti “piccoli uomini feroci” lontanissimi dalla “pietà per chi cade”.