Siamo al giro di boa della rassegna teatrale che l’Associazione Teatranima ha allestito in memoria dell’attrice agrigentina Mariuccia Linder.
Un uragano teatrale tutto al femminile che alla fine degli altri cinque spettacoli (a maggio) avrà il valore di una decina di “8 Marzo” e che proprio per questo dovrebbe essere sancito da un qualche dibattito, da un dialogo e confronto che talora in alcune rappresentazioni è mancato o lasciato sotto traccia di simbolismi e metafore rischiando di lasciare molte questioni in sospeso. Per inciso la rassegna di Teatranima al “Posta vecchia” (ingresso 10 euro) fa parte delle tre rassegne teatrali presenti nella stagione 2018-2019 insieme al Teatro da camera (gratuito) di Mario Gaziano e Giuseppe Adamo del Circolo Empedocleo e quella “miliardaria” per le solite élites del “Teatro Pirandello”.
Non è poco per una città come Agrigento rassegnata a rimanere al fondo di tutte le classifiche dell’Istat e che su questo versante culturale sta mostrando una vivacità mai registrata.
Lo spettacolo “Donna…io” di Antonellla Morreale è stato inserito in questa rassegna che finora ha ripreso i disperanti temi della questione femminile con un solipsismo e unilateralità che, a nostro parere, non è apparso molto risolutivo per i discorsi sul “genere” e sui “generi” tout court, lasciando decidere al lettore quanti siano questi “generi”. Ma come si diceva siamo al giro di boa e alla fine della rassegna un po’ tutti avremo le impressioni più chiare. Per adesso “il pover’uomo” ne esce malconcio, le critiche sul suo conto sono state sibilanti, feroci e anche ingenerose (ce lo consentano le signore scrittrici e attrici, anzi queste ultime, come spesso accade, sono state migliori dei registi/e). Nella sua semplicità di messinscena Antonella Morreale è andata giù dura sul “maschio” rappresentato da un manichino attraente come tutti i manichini, che domina la scena, pudicamente col pene “a riposo” e sul quale quattro attrici lanciano strali, accuse, dileggio, tormenti vari, sprazzi di amore, qualche carezza che non scende mai sotto la cintola. Lo scoprono e lo ricoprono con un mantello, gli legano al collo un farfallino adatto ad uno smoking che non arriverà mai. Davvero impietosa questa “invenzione” del manichino che però ci appare molto indovinata se pensiamo che quel manichino, possa e voglia rappresentare, senza sottotracce e simbolismi vari, “l’Homo fabarense” la cui “controcultura” aveva distrutto poche settimane prima il teatrino di Villa Ambrosini a Favara, costruito dalla Morreale e dal suo gruppo di attori. Un “Homo fabarense” che non risale al pliocene ma alla contemporaneità di molti dei nostri paesi. Per fortuna un altro tipo d’uomo favarese ha risposto, il pentastellato Di Caro, che ha offerto la ricostruzione del teatrino di Villa Ambrosini.
“Il mio è un discorso personale come presidente del Cif – precisa Antonella Morreale – io mi do da fare in tutto il sociale, per aiutare le persone, far crescere questa Favara”.
Senza chiedere il pizzo che secondo un pentito non viene mai chiesto a Favara.
“Anzi ci metto del mio. Però io voglio fare e dare finchè posso. Il motivo per cui mi hanno bruciato Villa Ambrosini”.
Un fatto grave da non prendere alla leggera.
“Assolutamente no, ho un mio modo di vedere la vita, perché questo episodio increscioso mi ha fatto veramente male, ma solo per dieci minuti, dopodichè io con le altre ragazze e ragazzi ci siamo rimboccate le maniche sia all’interno della villa e sia all’esterno. E’ un male che hanno fatto a ragazzi dai 15 ai vent’anni che i loro genitori mi avevano affidato. Ragazzi ai quali avevo dato dei sogni e uno spazio dove si organizzavano i loro compleanni, le festività, le loro rappresentazioni”.
Questa querelle femminile, anzi questo “mondo” che sta venendo fuori in questa rassegna tra esplicitazioni e sottintesi, quanto può aiutare? Forse ci vorrebbe un dibattito, un tirare le somme conclusive. Insomma un coming out ci vorrebbe?
“Sarebbe meraviglioso, è un’idea che si potrebbe lanciare”.
Glielo chiedo anche perché l’altra sera sentivo l’on. Santanchè dire a chiare lettere “ma salviamoli questi uomini” e finalmente sentivo una donna che stigmatizzava l’ipocrisia e l’opportunismo di certe dive molestate. D’altronde si sente impellente il bisogno di raccordarsi con più obiettività e ingoiando qualche rospo sia da parte femminile che maschile. Insomma un discorso meno “sbracato”.
“Sicuramente si. Non sono contro il femminismo ma non mi piace neanche perché occorre essere alla pari. A volte è difficile ma occorre tendere a ripristinare quello che è un aspetto complessivo umano, religioso, culturale. Abbiamo bisogno di riflettere sempre”.
Sotto certi aspetti, quel manichino mi ha dato fastidio anche se poi l’ho accettato pensandolo altrimenti, come le ho detto. Mi preoccupa il fatto che certi solchi si stiano allargando tra “bamboli” e “bambole” più o meno gonfiabili. Quante colpe abbiamo un po’ tutti?
“Colpe di entrambi. Vediamo che ci sono uomini che non hanno più una identità e quest’uomo manichino che si è visto in scena ci poteva essere perché non c’era più rapporto con l’uomo-Luca che veniva chiamato in causa”.
Quello che sembrava gratuito è appunto l’assenza dell’attore-Luca che potesse intervenire. Ma questa è stata la sua scelta di autrice con l’offrire una superiorità teatrale alla donna.
“Nel racconto originario questo non c’è, ho messo il manichino perché rappresentavo l’uomo senza identità, tranquillo e sereno che-racconto nel testo originario , scombussola la vita di una persona”.
Ha avuto troppa fiducia che sulla scena funzionasse questo attacco unilaterale all’uomo? Anche come metafora mi è sembrato una agevolazione di sceneggiatura tutta al femminile.
“Anche la donna ne usciva distrutta”.
Però la mancanza di controcampo per l’uomo, come la mettiamo? Tra l’altro addebitare quattro storie dolorose di donne allo stesso manichino lo faceva apparire un piccolo poligamo- sultano. Comunque il manichino mi è piaciuto accettarlo come il distruttivo “Homo fabarense” la cui controcultura è tutta da rigettare. C’è un’ altra cosa che volevo chiedere a lei come presidente del Cif. Cosa pensa di questa generazione di minorenni che per andare a vedere alla Lanterna Blu di Corinaldo uno Sfera Ebbasta si fanno massacrare dalla folla che fugge. Uno Sfera Ebbasta che nelle sue “canzoni” si esprime con frasi come “ste puttane da backstage sono luride. Vogliono un cazzo che non ride, sono scorcia-troie. Scelgo una tipa, nessuna dice no, me la portano in camera con una vodka”. Un linguaggio che è consimile al mondo trap di Dark Polo Gang, di Emis Killa, Guè Pequeno. Addirittura la selezione di Sanremo ha censurato ed escluso una canzone contro la pedofilia mentre si lasciano passare tutte le frasi dei cosiddetti trap. Le istituzioni che fanno?
“Stiamo sbagliando tutto, non abbiamo più identità né femminile né maschile. Non conoscevo questo rap però quello che mi fa più impressione è la mamma che muore per accompagnare la figlia in un posto del genere. C’è da chiedersi quante mamme sapevano di questo rap. C’è voluta una tragedia per saperne di più del mondo rap. Cosa fare? Ricorrere al dialogo, alla informazione, cosa che faccio da insegnante organizzando assemblee spontanee tra i ragazzi”.
Tornando alla nostra Rassegna teatrale, solleciterete voi registe, attrici un qualche dibattito finale sul tema rappresentato?
“Mi sta suggerendo un input importante e sono sicura che qualcosa si farà. Le persone che organizzano questa rassegna sono molto sensibili e capaci di comprenderne tutta l’esigenza”.
L’uomo non si salverà da solo e non con la sola Santanchè.
“Anche la donna non si salverà da sola”.